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MORRISSEY A ROMA - il racconto del concerto

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Dopo l'analisi dei testi dell'era The Smiths (QUI) e l'intervista a Mike Joyce (QUI) , ecco il racconto del primo dei due concerti romani del 2014 di Morrissey.
Buona Lettura

Divertente è tornare da una riunione di due giorni sul World Day for Inner Peace (dettagli QUI) e andare direttamente a un evento battezzato World Peace is None of Your Business!
Il concerto che sto per raccontarvi  mi è apparso come un incrocio tra una festa di compleanno a sorpresa e un convegno spontaneo tra le "best minds of my generation" (per citare un poeta di cui parleremo tra poco): all'entrata incontro decine di amici, alcuni tra i miei scrittori prediletti, eccellenze intellettuali come Massimo Palma (ne abbiamo parlato QUI) e Tuono Pettinato (QUI).
Un raduno spontaneo di menti brillanti venute al richiamo del più affascinante tra gli intellettuali sociopatici: Steven Patrick Morrissey.


Il clima raccolto da club esalta la varietà della fauna: si distinguono gli smithsiani d'annata, ormai ultra quarantenni, vistose macchie eccentriche dai riflessi mod o new wave nella folla trepidante.
Video dei Ramones e dei New York Dolls creano la giusta atmosfera elettrica, un codice di riconoscimento estetico tra gli astanti.

Morrissey sulla tomba di Johnny Ramone
I primi, il Moz li stroncò da giovane critico, ma sta pagando l'antico debito curando una loro antologia. Per ciò che riguarda i secondi, voci insistenti lo danno da ragazzo presidente del fan club; certo è che dopo le incomprensioni con Bowie durante la brevissima memorabile tournéé insieme, sostituì il "David's eyes" della sua versione (variazione dell'originale "Jagger's eyes") con "David Johansen's eyes".



Rimanendo nell'ambito, l'amore per Patti Smithè dichiarato da anni, Horses eletto a disco preferito, come consacrata dalla cover di Redondo Beach. A uno spettatore passeggero, la furia del punk potrebbe apparire in stridente contrasto con l'aplomb da dandy del Morrissey maturo. Ma indubbiamente queste icone brucianti si addicono molto più a preparare l'apparizione di un fiero misantropo antimonarchico, piuttosto che a promuovere un album imposto da una multinazionale ai propri utenti, ritagliate  nella sagoma danzante di Bono Vox, come nell'ultimo video degli U2.

                                          


Fashionably late, il Moz appare finalmente sul palco: è in forma, elegante e maturamente sensuale, in tutto il fascino della sua virile ambiguità. Molto di più rispetto alla fugace apparizione del giorno prima da Gazebo (con tutta la simpatia per Zoro, magari il titolo imparatelo la prossima volta, ha cantato una canzone una!).


L'attacco inconfondibile di The Queen is Dead apre trionfalmente le danze, mentre sullo sfondo campeggia un grottesco fotomontaggio della regina scapigliata che mostra entrambi i medi al pubblico. Ancora una volta ci dona una velenosa variazione nella risposta alla Regina che lo riconosce come "quello che non sa cantare": "And i know you, you cannot even talk!".
La band, compita nella consueta eleganza di camicia bianca e pantaloni neri, è precisa e potente, con picchi di squisita fattura tecnica negli assoli e nelle variazioni strumentali.



Ezra Pound sostituisce per una volta  Oscar Wilde sullo schermo, sicuramente per compensare l'oltraggio inferto dal nostro paese al grande poeta (e no, non mi riferisco al centro sociale fascista spacciato per luogo culturale, quella è la beffa dopo il danno). Ci sentiamo di sottoscrivere da sempre le sue parole in una recente intervista su XL: "Quando atterro sul suolo italiano sono felice, indipendentemente dalla mia volontà. Però è stata l’Italia a mettere Ezra Pound in una gabbia per settimane… Sì, una gabbia! Come punizione per essere un genio. Credo che sia stato il punto più basso della storia italiana".


Morrissey governa il palco con consumata gigioneria, delizia e tortura i fan con le sue ironiche pose da divo, raccoglie bigliettini d'amore da un fan, finge di metterseli in tasca per consegnarlo poi ad un altro, ironizza elegantemente sulla sua chiacchierata malattia e sul suo aplomb ("The Doctor says i should not smile...so i won't"), quando si chiede perché dovrebbe essere lì in quel momento,scatenando il collettivo "because we love you" dei fan, finge di trasalire: "Ah, i see".
Alla faccia di chi lo etichetta da anni come un malinconico depressone dalle tendenze suicide, Moz si impone fondamentalmente come un maestro d'umorismo. Basta un cenno teatrale, una smorfia impercettibile, una battuta accennata per indurre un effetto diuretico come il miglior Buster Keaton.
Il nuovo inno animalista The Bullfighter dies lascia presagire, come è lecito aspettarsi, la preponderanza di brani dall'ultimo, riuscito album nella scaletta.
Dalla sua recente opera, Morrissey coglierà nella serata alcuni dei brani più potenti, di cui brevemente diamo nota:
World Peace is None of your Businessè un impeccabile compendio del sarcasmo antiborghese del Nostro, in cui la soavità rassicurante della voce da crooner esalta ancora di più il disprezzo per gli indifferenti, gli ignavi sociali di moraviana memoria. Versi degni di essere mandati a memoria:

"Work hard and sweetly pay your taxes
Never asking what for
Oh, you poor little fool oh, you fool

World peace is none of your business
Police will stun you with their stun guns
Or they'll disable you with tasers
That's what government's for
Oh, you poor little fool oh, you fool

World peace is none of your business
So would you kindly keep your nose out
The rich must profit and get richer
And the poor must stay poor"

"Each time you vote you support the process", è lo slogan antiistituzionale perfetto, che sintetizza nella immediatezza del pop questa stupenda digressione da anarchico reazionario di Carmelo Bene (omaggiato QUI): "Nelle aristocrazie il principe non si fa eleggere, è lui che elegge il suo popolo. In democrazia il popolo è bastonato su mandato del popolo. È la pratica certosina dell'autoinganno. Si dice che il trenta per cento sia astensionismo.
Nego, tutto è astensionismo. Sono comunque voti sprecati."


Kick the Bride Down the Aisle, invece, esplode come un violentissimo schiaffo in faccia al Mr. Darcy dell'occasione, per svegliarlo bruscamente dal sogno dell'idillio nuziale: le dolcezze della sposa sono la tagliola per una vita di schiavitù sociale e morte interiore. L'intuizione  è medesima a  quella del nostro amato Schopenhauer (per quanto la nostra esperienza lo smentisca gioiosamente): "La maggior parte degli uomini si lascia sedurre da un bel volto; infatti la natura li induce ad ammogliarsi facendo in modo che le donne mostrino a essi, tutto in una volta, il loro pieno splendore ovvero...facciano un «colpo a effetto»; e nasconde invece i molti guai che avranno in seguito: spese a non finire, preoccupazioni per i figli, un carattere bisbetico, cocciutaggini, invecchiamento e inacidimento nel giro di poco tempo, inganni, corna, capricci, attacchi isterici, amanti, diavoli e inferno. Definisco perciò il matrimonio un debito che si contrae in gioventù e si paga nella vecchiaia.". La soluzione sembra invece suggerita dal nostro odiato Sade: prendere a calci la sposa sull'altare, facendola rotolare per la navata della chiesa, la spettacolare dissacrazione del rito e della felicità borghese. Apprezziamo il gesto simbolico solo perché sappiamo che è rivolto a una istituzione putridamente ipocrita.

Neal Cassady Drops Dead  rappresenta uno stupendo omaggio al lato più autentico della beat generation (in piena delirante distorsione del termine hipster che ben presto ci condurrà all'acquisto di una Luger, come Richard Benson insegna).



Da buon letterato il Moz, nell'omaggiare Ginsberg e il suo lamento per il vero eroe della strampalata epica beatnik (di cui Dean Moriarty, il protagonista di On the Road, per ammissione di Kerouac, suo fraterno amico, è un pallido clone), rivaleggia col poeta: il ritmo ossessivo del brano esalta i giochi di parole e le rime imprevedibili con cui il cantautore costella la narrazione, fino alla retorica domanda finale:
"Victim, or life's adventurer
Which of the two are you?"

                                   
Più perplessi ci lascia Istanbul, sorta di versione in rime wildiane (suggestive ma troncate nel racconto) del filmaccio Io vi troverò.

Il concerto prosegue bello, potente, emozionante, nonostante la scaletta sia al di sotto delle grandi potenzialità dell'autore. Non ci riferiamo solo ai classici dei The Smiths (sogneremmo un concerto che iniziasse con Reel Around the Fountain e finisse con Please, Please, Please let me get what i want comprendendo l'intera produzione), ma anche alla vasta messe della carriera solistica.
Se preferirà Everyday is like a Sunday a Suedehead come classicone finale (scatenando la folla nel coro apocalittico: "COME ARMAGEDDON COME"), sicuramente, avrà inteso To Give (the reason i live) di Frankie Valli come omaggio alla canzone italiana...ma avremmo preferito vivere la sognante commozione di Now My Heart is Full, la folle frivolezza masochista di The Last of International Playboys, l'insidioso fomento di The National Front Disco, la grande fierezza di Irish Blood, English Heart, financo la malizia seducente di The More You Ignore Me, The Closer I Get.
Del tutto, incomprensibile la scelta, invece, di cantare a Roma I'm Throwing My Arms Around Paris e non You have killed me (si rifarà la seconda serata).


Acme emotivo (come da trent'anni a questa parte) è Meat is Murder, accompagnata come d'uso dall'intollerabile video documentaristico sulle crudeltà inumane a cui gli animali sono sottoposte dall'industria alimentare. Il pubblico si divide tra coloro che guardano il video con dolore e chi abbassa lo sguardo dal disgusto. Fu proprio una visione (in tv!) di un simile documentario a scioccare il bimbo Steven Morrissey e a convincerlo della scelta vegetariana: evidentemente crede nel potere rivelatorio di quello sconvolgimento emotivo. Come ci disse Mike Joyce nella nostra conversazione, il brano è sempre emozionante dal vivo, anche ora che il Moz lo rende un mero commento ideologico al video: ci dispiace che abbia sostituito uno dei suoi versi più belli, la dolente deduzione "It's death for no reason. And death for no reason is MURDER", con lo slogan secco: "KILL! EAT!/ KILL EAT...MURDER", mentre indica l'evidenza agghiacciante delle immagini.

Degli agognati brani dei The Smiths la concessione scende, dal tour precedente, da sei a quattro ma, come si suol dire con una risibile espressione, "valgono da soli il prezzo del biglietto":
How soon is Now? illumina col suo ipnotico splendore la metà del concerto, immergendo il pubblico nella sinuosa danza attorno all'eterno quesito esistenziale del presente sfuggente.
Soprattutto Asleep, un dolcissimo inno al cupio dissolvi in guisa di ninna nanna romantica: le luci si abbassano, il profilo del Moz si staglia immerso nell'oscurità, stentoreo e maestoso. Proprio come nel ritratto di LRNZ per il nostro articolo, che grazie a una serie di manovre diplomatiche degne del Cardinale Richelieu sono riuscito a far arrivare nel camerino del cantante, come degno premio della sua opera.
E delle irriducibili umanissime emozioni, della sopraffina delizia intellettuale che in meno di 90 minuti è comunque riuscito a donarci.

il ritratto di Morrissey di LRNZ




La Trattativa di Sabina Guzzanti - un film importante

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Ho visto "La Trattativa".
Lasciate perdere visioni politiche, antipatie o simpatie per l'autrice.
È un film serio, coraggioso, importante.
Realizzato con durezza e inaspettata asciuttezza.


Strano e affascinante il destino dei fratelli Guzzanti, menti brillanti, comici di innegabile talento, lucidissimi osservatori della contemporaneità, nel cui DNA è inscritto il segno della grande riflessione intellettuale, clamorosamente virata dalla figura paterna (comunque notevole intelligenza dialettica) sul fronte opposto. 
Non è esagerazione dire che le analisi politiche più lucide e centrate sul fallimento sleale e il progressivo smarrimento d'identità della Sinistra italiana sono state da loro dispensate in tempi non sospetti.

Amaro privilegio che dividono in Italia con altri intellettuali di ambito artistico e non strettamente politico, come Nanni Moretti e Giorgio Gaber (per non scomodare Pasolini, ma lì si entra nell'ambito del dono profetico). 


Col potere liberatorio della risata, secondo l'assunto ruzantiano del giullare medievale, hanno rivelato, e spesso puntualmente anticipato, le derive grottesche della politica italiana degli ultimi vent'anni.



Tra i due fratelli maggiori, Corrado e Sabina. l'autrice è sicuramente quella più esplicitamente impegnata civilmente, più diretta e "politica" nel senso alto del termine. A questo riguardo, un rilievo che spesso si può muovere al suo approccio satirico è di mancare di quella leggerezza, propria del genio, che è tratto peculiare delle riflessioni di Corrado. Usiamo il termine nella ormai comune accezione profonda, conferitagli da Italo Calvino nelle sue celebri Lezioni Americane: "leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore".
Un eccesso di sarcasmo acido, di livore dialettico, di pesantezza mentale inquinava le sue ultime (pur sempre interessanti) prove satirico-documentaristiche.
Se da un lato tale implacabile rancore poteva essere giustificato dalla gravità delle accuse rivolte al Potere, dall'altro innegabilmente indeboliva la potenza delle sue argomentazioni.



Quando raggiunge l'equilibrio, come tutte le donne coraggiose, la regista riflette incosciamente la potenza dell'archetipo di Shri Mahakali: il purissimo potere femminile che, nella tradizione indù, sfida e massacra i demoni dell'ingiustizia.
Quando lo smarrisce, spunta da sola le proprie armi con l'eccesso di arrovellamento fegatoso.



Nulla di tutto ciò nel suo ultimo film, La Trattativa.

Un film importante.
Un esempio, serio e rigoroso, di cinema civile.
Ciò che colpisce non è il grande dettaglio documentale, o la potenza espressiva. Sono qualità a cui la Guzzanti ci ha abituato. Ciò che colpisce è proprio l'asciuttezza della progressione argomentativa.
Ed appunto, ciò che mancava in passato: un solido equilibrio formale, una grazia interiore (non a caso tema circolare del film)  che ispira il racconto, anche nei momenti di più intollerabile cupezza.
La fotografia di Ciprì garantisce una qualità visiva di livello internazionale.
Un plauso agli attori, tutti notevoli, nel bilanciare realismo e caratterizzazione di personaggi a volte stra-famosi, altre volte oscure comparse o cruciali marionette del sordido disegno criminale che di fatto ci governa da decenni.



Lo straniamento brechtiano è utilizzato con saggezza, senza appesantire. La cornice del racconto conferisce al teatro il suo antico ruolo di luogo della crisi, dell'analisi sociale, dell'introspezione collettiva: nello svelare il trucco della finzione recitativa dall'inizio  (gli attori che si truccano all'interno del teatro prima di interpretare i protagonisti reali), ancor più appare deflagrante il messaggio della finzione manipolatoria delle versioni ufficiali.
Possiamo dire che si tratta di una compiuta evoluzione della teoria e pratica del teatro di Dario Fo.
Detto da un ammiratore di Carmelo Bene, è indubbiamente un complimento.

Non voglio rivelare nulla delle rivelazioni (scusate il bisticcio), perché desidero intimamente che tutti vediate il film. Quello che ne Il Divo di Paolo Sorrentino veniva suggerito con la sottile ambiguità ontologica del protagonista, qui viene esposto con preciso rigore logico-argomentativo e una convincente asciuttezza formale.



Bellissima l'intuizione dell'esame di teologia del pentito Spatuzza, che non riesce inizialmente a rispondere alla definizione del concetto di Grazia.
La Guzzanti ha l'intelligenza e la sensibilità di non esplicitare come la risposta giusta non sia nelle elucubrazioni filosofiche di millenni di dibattiti, ma nell'esempio luminoso e commovente di Don Puglisi, che in punto di morte sorride ai suoi sicari . 



Abbiamo già omaggiato simili accecanti momenti di luce nella storia italiana (QUI).
Dopo quasi due ore di indignazione e di rovesciamento dei ruoli (ci si ritrova ad ammirare il coraggio di un pentito e a disprezzare l'ignavia delle istituzioni, questo spiega anche la controversa battuta dell'autrice sulla "solidarietà" a Riina e Bagarella degli ultimi giorni), si avverte la sensazione fisica di oppressione che i latini chiamavano angustia.



Ma il finale del film, centratissimo, scioglie ed eleva il cuore in una commozione spirituale, in un profondo anelito ideale. Un imperativo morale spontaneo, imposto dal rispetto delle poche figure che hanno combattuto a testa alta nel pantano immondo della trattativa: su tutti, Falcone, Borsellino,Don Puglisi.
Ha ragione il  caro collega Giorgio Brusco, del blog dedicato alla meditazione benvenutinparadiso: questo film, affermando QUI che se questo film venisse visto da tutti, potrebbe rappresentare la catarsi collettiva della storia recente italiana.
Vedetelo.
E parlatene.



Un anno di Fumettologica

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L'omaggio sempre intelligente di Tuono Pettinato

 È con grande soddisfazione che celebro oggi il primo compleanno di FUMETTOLOGICA, il Magazine quotidiano di informazione e cultura del Fumetto che in breve tempo si è imposto, oggettivamente, come il punto di riferimento informativo del mondo del fumetto italiano.
Da un lato, mi fa sorridere pensare di essere tra i collaboratori più prolifici, stante che non mi considero per nulla un esperto di fumetti (come dichiarato in tempi non sospetti QUI).
Dall'altro, sono fiero di far parte di una squadra così prestigiosa (senza far nomi, basta consultare l'elenco delle firme che vi pubblicano).



Sono confluito in questa avventura dall'esperienza di Conversazioni sul Fumetto (di cui QUI riportiamo tutti gli articoli) e, come si sarà immediatamente accorto chiunque abbia seguito entrambi i blog, l'approccio fumettologico è stato, soprattutto all'inizio, più informativo che squisitamente critico.
I pochi coraggiosi lettori di questo blog, abituati alle deliranti cascate di subordinate e parentesi discorsive che regolarmente gli infliggo, non faranno fatica a realizzare quale palestra di sintesi e linearità ha rappresentato per il sottoscrivente modellarsi su quel parametro giornalistico.
Per un verso, questa ascesi espressiva mi ha indotto a erompere ancora più sfrenatamente su queste deliranti colonne, dall'altro (si spera) è stato un passaggio obbligato di maturazione stilistica.
Oltre a ciò, FUMETTOLOGICA mi ha dato la possibilità di incontrare di persona autori che stimavo fin dalla gioventù (come Bruno Bozzetto QUI , Dave McKean QUI o Simon Bisley QUI), ricevendone reciproco apprezzamento.
Non è poco.
Ringrazio per questo Matteo Stefanelli e Andrea Queirolo, che mi invitò a collaborare con lui dai tempi di Conversazioni sul Fumetto.
QUI trovate tutti i miei articoli, non solo la rubrica (quasi fissa) #tavolidadisegno che, nel tempo, ho condiviso con altri colleghi (che ricordo nacque da un'intuizione di quel vulcano di Maicol).

Ecco QUI l'articolo che oggi celebra il primo anno della testata.
Ci auguriamo che sia solo l'inizio di una lunga, gloriosa storia di cultura e informazione del Fumetto.
Buona Lettura!

COMICSDAY - e la scoperta di "Metamorphosis"

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Il racconto della giornata
Questa rapida nota  è il racconto di una bellissima giornata trascorsa a Monterotondo presso la Libreria Ubik (QUI la pagina Facebook con tutti gli eventi):  un luogo di lettura incantevole che può vantare un catalogo di qualità peculiare.
Non è esagerato definirla un'oasi di cultura e cortesia, visti i tempi.
Da abituale frequentatore compulsivo di librerie dall'età di 13 anni ho assistito all'inesorabile trasformazione di luoghi culturali storici del centro di Roma da templi della ricerca a supermercati per intellettualoidi (ogni riferimento alla Feltrinelli di Largo Argentina, e di tutta Italia, è puramente voluto), in cui si crede sia postmoderno accostare l'immagine di Pieraccioni a quella di Pasternak.
Dunque, è balsamo la cortese competenza di Chiara Caiò e Lucia Garaio che hanno seguito con grande premura e attenzione lo svolgersi del programma.
Sono state talmente cortesi nei nostri confronti che a un certo punto, contro ogni intenzione e evidenza, durante le presentazioni ci siamo quasi presi sul serio.

Con Alessandro e Francesca Di Virgilio

La giornata è stata ribattezzata Comicsday, organizzata da Alessandro Di Virgilio, una delle persone più garbate e colte di quello che, con un'espressione meritevole della fucilazione pubblica istantanea, viene definito il "fumettomondo" italiano.
Lo ringrazio per la considerazione d'avermi invitato a moderare gli incontri, pur avendo io dichiarato da sempre il mio non essere un esperto di fumetti (riporto ancora e ancora la mia dichiarazione QUI)




Come da programma la giornata è iniziata con Nicoletta Baldari, disegnatrice di Ciak si gira, Geronimo Stilton, e la festosa accoglienza di tanti bambini che hanno imparato con lei a disegnare il loro beniamino (quando si parla di bimbi e personaggi di fantasia il lessico va subito in modalità Istituto Luce). 


                                     
Oltre a sottolineare la grande disponibilità e simpatia di Nicoletta, vorrei consegnare ai posteri un documento eccezionale: la testimonianza unica di un nuovo fulminante talento nel mondo del fumetto italiano.

Finalmente ho trovato un mestiere...

L'incontro successivo è stato con Stefano Simeone, nostra vecchia conoscenza.
Prima dell'intervista abbiamo stipulato un mutuo (e muto) accordo paramassonico per cui avremmo parlato di tutto tranne che dei suoi libri: dalle sentinelle in piedi a Juventus-Roma alla Leopolda al'argomento ontologico di S.Anselmo.
La formula si è rivelata vincente, siamo molto soddisfatti, la riproporremo vieppiù.
Non vi dirò le sue opinioni, saranno un prezioso lascito esoterico per i presenti a quell'incontro indimenticabile.
Consolatevi leggendo QUI e QUI le nostre precedenti interviste.
                            


Esattamente all'ora del tè (considerando un doppio quarto d'ora accademico), è iniziato il terzo incontro.
Alessandro Di Virgilioè passato (pur rimanendo magicamente sulla stessa sedia) da intervistatore a intervistato, accanto alla sua adorabile erede d'arte Francesca Di Virgilio e al disegnatore Mauro Cao.

Mauro Cao
Riguardo a Mauro devo dire una cosa: è una delle poche persone che quando parla di alcuni argomenti (sottoculture e  arti marziali su tutti) ascolto volentieri senza reagire in maniera scomposta.
Un privilegio raro.
Anche in questo caso, vi rimando alle nostre precedenti conversazioni riguardo il loro libro ...E tutto il resto appresso  QUIe QUI.

                           


E veniamo all'ultimo incontro, quello probabilmente più atteso dal pubblico: A Bevilacqua piace...
Giacomo Keison Bevilacqua  era, fra gli autori invitati, forse l'unico che non avevo precedentemente intervistato. 

Con Alessandro Di Virgilio e Giacomo Keison Bevilacqua

 Non certo un ostacolo, considerando la disarmante simpatia di Giacomo e non potendo  il sottoscritto annoverare la timidezza fra i suoi molti difetti.




La scoperta di Metamorphosis
La fama di Keisonè legata senza dubbio al personaggio della serie A Panda piace.
Giacomo ha trovato l'Uovo di Colombo del fumetto pop: un personaggio tenero e simpatico (cute, si direbbe in inglese) che esprime semplicemente e liberamente la sua personalità. Un gioco infantile e accattivante, in cui tutti i lettori possono riconoscersi o dissentire sorridendo. Un'intuizione semplicissima ma efficace che apre a uno sviluppo seriale pressoché infinito: innumerevoli le variazioni comiche, alcune riuscite, alcune brillanti, alcune facili, alcune furbe, alcune spiazzanti con cui negli anni Giacomo ha declinato le possibilità del personaggio.
Un'invenzione che ha raccolto un notevole seguito, mostrando (prima del ciclone Zerocalcare) le potenzialità di successo di un certo approccio al fumetto popolare.
Eppure, nel nostro incontro non si sarebbe dovuto parlare solo dell'ormai celebre Panda.
Un altro libro, meno famoso, di Giacomo è la storia a fumetti Metamorophosis, una miniserie in tre capitoli pubblicata verso la fine del 2012 per i tipi dell'Editoriale Aurea.



Confesso che non l'avevo letta.
Confesso che l'ho divorata nel pomeriggio prima della presentazione.
Confesso che mi ha colpito molto.
Mi ha colpito innanzitutto per la scelta, comunque apprezzabile, di rompere il facile schema di A Panda Piace (anzi, dopo questa esperienza narrativa anche le storie del Panda troveranno una nuova formula, più vivace e interessante). Il libro è, di per sé, coraggioso: non solo perché spiazza un pubblico che attende tutt'altro, ma perché affronta tematiche complesse e già trattate ai massimi livelli in tutte le forme. Se i maliziosi potevano accusare le opere precedenti di eccessiva facilità, di adagiarsi sugli allori di un apprezzamento garantito dei lettori, certo questa è tutto il contrario di un'operazione ruffiana.  Lo sforzo è ambizioso fin dalla struttura dell'opera: un modulo ternario in cui, fedele al titolo, la metamorfosi informa sia lo stile (che cambia di scenario in scenario, su diversi piani psichici e temporali) che i personaggi stessi (della ricchezza semantica di questo concetto ne parlammo in tutt'altro modo con Rita PetruccioliQUI).
Bevilacqua attinge dichiaratamente a tutti gli stilemi e moduli della narrazione pop contemporanea, collaudati da serie tv, fumetti di successo, film di culto: la ragazza fragile e adorabile, il trauma infantile, la storia d'amore apparentemente impossibile, il serial killer geniale vittima del delirio di onnipotenza et similia. Il tutto condito dalla sua consueta facilità narrativa, l'umorismo immediato e sempre gradevole, una sapiente gestione di ritmi e colpi di scena.
Giacomo dichiara onestamente tutti i debiti e i prestiti,  tramite citazioni evidentissime o affettuosi omaggi.
C'è però qualcosa di più: l'autore ha qualcosa da dire. Non è scontato, in questi tempi in cui la confezione meccanica di stereotipi viene spesso salutata come una nuova frontiera dell'arte.
Giacomo gioca col fuoco (le citazioni dei miti greci), rischia di scottarsi più volte (cedendo alla tentazione di mostrarci la protagonista nuda mentre si fa la doccia o sdrammatizzando con battutine maliziose l'acme drammatico del racconto), ma alla fine la lettura è sorprendente.
Non è facile trattare una materia come le ripercussioni psichiche di un trauma infantile, quando le orme del Gigante Urasawa  ne hanno già calcato in maniera definitiva il cammino (su Monster un giorno scriveremo un trattato). Per il discorso opposto, dopo il successo planetario del furbissimo Dan Brown mi viene l'orticaria a pensare a un serial killer che manda messaggi cifrati attraverso citazioni dalla cultura alta.
Eppure, il libro funziona.
Appassiona, diverte, sorprende.
Ben vengano tentativi ambiziosi come questo nel fumetto popolare, ben venga il coraggio di differire la propria personalità autoriale, ben vengano la spontaneità e la freschezza di un autore che, pur con molta umiltà, non ha paura di giocare su un livello più alto.
Con l'innocenza del suo approccio, Bevilacqua riesce ad essere molto più sottile psicologicamente di tanti autori "seri". 
Lo ringraziamo per questa lezione di semplicità.
E non vediamo l'ora di vederlo affrontare il totem Dylan Dog.

TUTTI GLI ARTICOLI DI OTTOBRE

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Cari lettori,
il vortice di impegni, progetti, articoli, deliri è tale che perfino queste comode note escono con ritardo ormai regolare.

Siate consapevoli però che nelle prossime settimane un cannoneggiamento di prelibate primizie intellettuali abbatterà i muri della vostra attenzione per conquistare il centro del vostro desco mentale.

Detto ciò, ecco a voi il mosto d'Ottobre.

Su FUMETTOLOGICA abbiamo pubblicato:

- L'intervista per #tavolidadisegno a Mabel MorriQUI.
In realtà, in questo caso ha fatto tutto lei, onorandoci col graditissimo dono di un'intervista disegnata.
Presto vi racconterò di una splendida serata in sua compagnia. In chiesa.



- Il racconto di Selfy, il progetto di Inuit, che combina un'importante visione culturale dell' autoproduzione con interessanti esplorazioni nelle nuove tecnologie di stampa QUI


- La conversazione iniziatica col Dr.Pira, tra le cui ardenti righe potreste trovare il senso recondito della vostra esistenza QUI



Su queste deliranti colonne, invece vi abbiamo inflitto:

- il recap del mese precedente;) QUI

Carmelo Bene visto da Tuono Pettinato


- il racconto del primo concerto romano di Morrissey QUI



- la recensione del film La Trattativa di Sabina Guzzanti (in realtà un appello ad andarlo a vedere) QUI



- Le celebrazioni per il primo anno di FUMETTOLOGICA QUI



- il racconto del Comicsday a Monterotondo, soffermandoci sulla scoperta di Metamorphosis di Giacomo Bevilacqua QUI



Vi dico solo che i prossimi articoli (sul blog) avranno come tema:
- Schopenhauer
- i rapporti fra il e la Kabbalah
- Ratigher
- Caligola e Edoardo II
- Zerocalcare
- Bowie/ Baudelaire e Dylan/Fitzgerald
- Chesterton e Wilde
senza citare un'intervista a un signore che non è esagerato definire il maestro di molte leggende viventi.

Più tutto quello che nel frattempo accadrà e scompaginerà come sempre i progetti d'ognuno.

Buona Lettura
e a presto con nuove mirabolanti avventure!

La Cura Schopenhauer

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Per Camilla Crisante

Irvin Yalomè un professore di psichiatria alla Stanford University, che da anni riversa la sua decennale esperienza sul campo associandola allo studio dei grandi filosofi.
Ha finora scritto una ideale trilogia di romanzi, ciascuno dei quali incentrati sulla figura dei pensatori più congeniali alla sua ricerca: Schopenhauer, Nietzsche, Spinoza.
Per una sorprendente coincidenza, si tratta forse dei nostri prediletti (aggiungeremmo Kierkegaard e poi, fuori d'ogni etichetta, Camus e Simone Weil).
Abbiamo, dunque iniziato (grazie all'adorabile mecenate a cui è dedicata questa nota) il primo dei tre: La cura Schopenhauer.
L'assunto narrativo è presto dichiarato: un luminare della psichiatria scopre improvvisamente di avere sei mesi di vita. Lui, punto di riferimento costante dei suoi pazienti, cade in una profonda crisi esistenziale.
Decide, dunque, come forma di estrema introspezione, di ricontattare l'unico caso che non era riuscito a risolvere: un cinico apatico, schiavo di una ossessiva compulsione sessuale.
Lo riscopre collega, guarito non dalla psichiatria, ma dalla lettura del più pessimista e distaccato dei filosofi moderni: appunto, Arthur Schopenhauer.
Non rivelo altro per non rovinare la lettura, ma la narrazione continua alternando la descrizione dell'impatto della notizia sul gruppo di terapia, e della sua conseguente traumatica evoluzione, col racconto cronologico della vita del filosofo.
Il libro è un omaggio degno e profondo alla statura elevatissima del pensiero schopenhaueriano.

Friedrich Nietzsche* (il più geniale fra i suoi allievi e, in seguito, il più veemente dei suoi contestatori) fu il primo a rimarcare l'importanza pedagogica della figura di Schopenhauer come educatore, non a caso terza delle sue cruciali Considerazioni Inattuali.
Considerato da Tolstoj "il più geniale di tutti gli uomini", Schopenhauerè in primo luogo maestro di stile (anche in questo caso eguagliato e superato solo dal menzionato discepolo/ demolitore Nietzsche).
Come scrive Thomas Mann nel saggio del 1938 dedicato al filosofo (omaggiato senza menzionarlo nel romanzo giovanile I Buddenbrook), egli possedeva un "linguaggio vigoroso, elegante, preciso, passionale e arguto, di una purezza classica e di una grandiosa e serena severità stilistica, quali mai si erano viste fino ad allora nella filosofia tedesca".

uno dei più celebri ritratti di Friedrich Nietzsche

Tornando a Yalom, innanzitutto, è apprezzabile che nel libro si ribadisca come molte delle tesi freudiane siano già presenti nelle riflessioni del pensatore di Danzica, soprattutto in quel nerissimo gioiello, capolavoro a sé stante, che è la Metafisica dell'Amor Sessuale: uno squisito distillato di pessimismo antiumanista, che illustra con mirabile distacco l'intuizione leopardiana dell'amore come "inganno estremo".
Il libro rappresenta anche l'occasione per approfondire la conoscenza biografica della burrascosa vita del pensatore, lacerata tra l'impetuosa ricerca filosofica, permanenti ristrettezze pratiche e l'indifferenza dei contemporanei, ripagati abbondantemente con la scottante moneta del disprezzo.
Solo tardivamente, negli ultimi anni di vita, a Schopenhauer verranno tributati i giusti onori.
Celebri sono le sue sfuriate da libero docente all'Università di Berlino di fronte all'aula semivuota, mentre in quella accanto gli studenti si accalcavano in fila per ascoltare come un profeta l'odiato Hegel**. Yalom non risparmia nulla alla grande mente, si inchina alla sua lucidità e alla sua coerenza intellettuale ma non nasconde certo i suoi intollerabili difetti caratteriali: un cinismo sistematico, un egoismo fiero e sprezzante, non a caso proprio di colui che eresse e incarnò un monumento filosofico alla Misantropia.
Sgradevole ed esaltante insieme è il sarcasmo incendiario con cui il saggio pessimista deride e condanna gli esseri umani, o meglio i "bipedi" com'egli gli appella, alla vana insignificanza delle loro vite.
Altri, comunque, sono i pregi del libro, al di là della mera, preziosa opera di diffusione del pensiero schopenhaueriano.

Irvin D.Yalom
Per quanto chi scrive non riesca a celare un certo imbarazzo per l'atmosfera tipicamente americana delle terapie di gruppo (quella positività fittizia e sgradevole, quella superficialità di giudizio e quella scarsa istintiva conoscenza di sé che induce a confessarsi in pubblico appoggiandosi alla stampella precaria dell'approvazione altrui), Yalom conduce il gioco egregiamente, conciliando le esigenze di plausibilità della narrazione (e la conseguente presenza di banalità sciorinate da alcuni partecipanti al gruppo) con la progressiva agnizione di eterne verità filosofiche a cui il lettore è indotto.
Non sbrigativa e abbastanza affidabile è l'esplorazione delle pratiche meditative, in questo caso la vipassana, tra le più diffuse negli Stati Uniti e non solo (chi scrive non vi aderisce, ma è altro discorso).
Del resto, Schopenhauer è il pensatore occidentale che più ha attinto dichiaratamente all'oceano di saggezza della conoscenza orientale, come rivelano toni, concetti e visione di un passo del genere: "L’uomo che, dopo tanti angosciosi conflitti con sé stesso, riesce infine a ottenere una così piena vittoria, non è più altro, ormai, che un soggetto puro di conoscenza, un limpido specchio del mondo. Nulla può più angustiarlo e commuoverlo, perché egli ha spezzato i mille fili del volere che ci tengono legati alla terra: il desiderio, il timore, l’invidia, la collera, e simili passioni, che ci sconvolgono e ci dilaniano. Con volto placido e sorridente, contempla le immagini illusorie di questo mondo...".
I personaggi del romanzo, all'inizio eccessivamente stilizzati, col tempo assumono una complessità verosimile e rendono dialetticamente viva l'attualità del pensiero del filosofo.
La trama si svolge avvolgente, ritmata da colpi di scena  (alcuni prevedibili, altri meno), mantenendo alta l'attenzione della ricerca filosofica.
Di grande interesse la riflessione sull'incombenza della morte, tema di un testo cruciale di James Hillman del quale presto tratteremo.

Un libro valido, degno di una lettura attenta, che può rappresentare un confortevole viatico per addentrarsi nel pensiero di una delle più grandi menti filosofiche dell'Occidente moderno.

un celebre e tardo ritratto di Schopenhauer


* ne abbiamo parlato QUI e QUI
** ne abbiamo parlato QUI

BLATTA di Alberto Ponticelli - l'inferno come destino sociale

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Tutta, o quasi, l'arte del Kali Yugaè arte della nigredo.
Se dovessimo chiarire il concetto  a lettori non avvezzi al linguaggio esoterico, tradurremmo: tutta, o quasi, l'arte dell'ultimo secolo (periodo di grande confusione morale e progressivo smarrimento ideologico) è arte del dissidio, dell'esilio, della lacerazione, della disarmonia.
Tutti, o quasi, i grandi geni del Novecento, in ogni ambito artistico, sono stati in primo luogo testimoni del Nulla, cantori del fallimento, profeti della Morte, ossessivi talmudisti della mancanza di senso. Con accenti, toni e ispirazioni diverse, tutti maestosi monumenti al pessimismo più fosco.
 In letteratura, da Joyce a Beckett, da Céline a Fitzgerald a Kafka,in primo luogo: una magistrale esplorazione dello smarrimento di sé. Nel cinema, da Hitchcock a Kubrick, da Lynch a Polanski a Lars Von Trier: geni differenti, che condividono però uno sguardo spietato, crudele, implacabile sull'abisso di nequizie dell'animo umano. L'arte figurativa e la musica classica , con l'avvento di per sé destinato all'anacronismo delle avanguardie, hanno spalancato la porta dell'inferno, o meglio del subconscio, delle dissonanze, dell'impossibilità di visione (da Munch a Bacon, da Schöenberg a Luciano Berio). Nell'ambito della musica popolare, l'atmosfera è talmente intrisa di negatività, di compiacimento satanico e celebrazione del Male, da far proporre più volte addirittura la candidatura al Premio Nobel per uno dei pochi cantori universali, affrancati dal morbo collettivo di negazione esistenziale. Ci riferiamo ovviamente a Bob Dylan, che della presenza del Male fa spunto di ricerca gnostica (come dice il suo ammiratore Guccini: "la giostra dei miei simboli fluisce uguale per trarre anche dal male qualche compenso"). In filosofia tutto ciò è stato sistematizzato fin troppo: da Sartre a Ciorian, fino alle derive post-strutturaliste, registrando tardivamente ciò che l'arte aveva già intuito e manifestato (come dice il mio non amato Hegel in un'affermazione invero illuminante: "la filosofia arriva sempre troppo tardi...la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo").
Restringendo il discorso al perimetro del fumetto italiano attuale, questa visione allucinata del reale, questo iperrealismo tetro e delirante, eppure tragicamente rivelatore, ha i suoi moderni maestri: Akab ne è il più potente creatore di icone, Maicol il più geniale aforista, Ratigher il narratore più efficace.
In questo indirizzo, con autonoma personalità autoriale, si iscrive pienamente Alberto Ponticelli con Blatta (ristampato recentemente da RW Linea Chiara).



Raramente atmosfere simili, di orrore distopico, ci colpiscono o attraggono*.
Ma il libro di Ponticelli ha il carisma nero di un monolite visivo, piantato come una tomba su ogni possibile speranza nell'umanità.
Saranno state forse le circostanze della prima lettura ad amplificare l'impatto devastante dell'opera sulla mia sensibilità. Ultimo giorno del Comicon, città di Napoli paralizzata dai festeggiamenti per la Coppa Italia: dopo esservi giunto a piedi, dribblando bombe artigianali e  prostitute nigeriane coi volti dipinti d'azzurro (somma tristezza, tingere di festa altrui la propria schiavitù), mi sono barricato nella Stazione Centrale, divorando il libro mentre centinaia di tifosi impazziti provavano a buttare giù a calci le vetrate, armati di mazze a volto coperto.
Circostanze indubbiamente peculiari, quasi un corollario vivente dell'assunto dichiarato in quarta copertina: "l'uomo non è in grado di gestire la propria libertà".
A una attenta rilettura, avvenuta dopo mesi in un ambiente sicuramente meno singolare, Blatta non cede nulla in potenza d'urto interiore.


Il libro è l'epitaffio su ogni delirio laicista riguardo le "magnifiche sorti e progressive" della tecnocrazia: l'immortalità ("per un laico la massima espressione dell'affermazione della vita" fa dire Corrado Guzzanti a Padre Pizarro, in una delle sue più geniali invenzioni satiriche) diventa un sempiterno inferno. Senza rivelare nulla al lettore interessato, Ponticelli ci cala in una distopia, più che orwelliana, ultra-huxleyana, in cui la condizione umana è ridotta al nulla automatico, ben oltre qualsiasi incubo kafkiano o beckettiano. Qualsiasi possibile rivolta è stroncata in una reincarnazione coatta, qualsiasi impeto della volontà annullato in un impermeabile esistenza meccanica.
L'anomalia del Sistema (rappresentata, appunto da una blatta, l'insetto più ripugnante diventa simbolo e porta di un'impossibile libertà) conduce a un ulteriore straniamento, a una ancor più annichilente consapevolezza.
Ponticelli implacabilmente inchioda l'uomo alla sua nuda miseria animale, qualsiasi tentativo di ricostruzione sociale, di ritorno a una purezza edenica è travolto dal male divenuto Macchina, Sistema, Espropriazione dell'Identità.
Il condominio di Polanski de L'Inquilino del Terzo Piano, che congiura contro l'identità dell'individuo fino a condurlo allo smemoramento schizofrenico di sé, è divenuto l'intera umanità.
Il finale, sospeso, tra fuga e dissoluzione, abbandona il lettore alla più desolata contemplazione del nihil ontologico.
Per chi, come chi scrive, abitualmente si nutre della luminosa saggezza di Chesterton, delle illuminazioni di Tolstoj e delle visioni mistiche di Blake, riconoscere il valore di un'opera simile credo equivalga a conferire una medaglia artistica.




*Consentitemi una brevissima digressione: ho letto Debbi la strana di Paolo Di Orazio .
È un libro estremo, tremendo, a tratti intollerabile. Ogni pagina vomita incubi tragicamente plausibili, che invadono il subconscio del lettore come barbari infoiati assalirebbero un monastero. Tutto il Male del Mondo trasuda dalle righe acide e assordanti che compongono il racconto, ossessive e sfregianti come un rosario blasfemo.
Io che non sopporto lo splatter, e disprezzo il porno, non mi sento di consigliarlo a nessuno a cui voglia bene. Per i miei parametri, la censura scatterebbe alla seconda pagina.
Ma voi, e so che siete tanti, che amate questi generi, che siete cresciuti con Stephen King e Clive Barker, che adorate Lovecraft e vi nutrite di sguardi sulla negatività, non avete alternative: incoronate Paolo come Re d'Italia.
Per stile, profondità e spietatezza, non ha eguali...

Il Giovane Favoloso di Mario Martone - una sfida impossibile

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Anche per un regista serio e preparato come Mario Martone, realizzare un film biografico su Giacomo Leopardi (la più alta voce poetica italiana di tutti i tempi dopo Dante Alighieri, oltre che forse il nostro più grande filosofo moderno) rappresenta di fatto una sfida impossibile.
Troppi, mastodontici, insormontabili sono gli ostacoli che occludono un itinerario sereno e diretto, una visione limpida e illuminata dell'essenza esistenziale dell'immenso autore, tuttora ignorato, nella sua oceanica profondità, dai più. Brevemente, osserviamo i più evidenti: da un lato restituire cinematograficamente la complessità biografica di una vita che solo uno sguardo superficiale potrebbe additare come monotona, mentre al contrario fu rocambolescamente nomade; e non ci riferiamo solo alle abissali esplorazioni interiori del poeta, ma proprio alla serie fortunosa, improvvisata, quasi picaresca di spostamenti, traslochi, peregrinazioni, sostenuti in condizioni fisiche sempre più cagionevoli e in quasi completa indigenza.
Ancora, ben più arduo cimento, è affrontare il gigante Leopardi dovendo scrostare due secoli di luoghi comuni scolastici beceri e triviali, di etichette orrendamente superficiali e, proprio per questo, di immediata presa sulle menti comuni.


 Soprattutto, accostarsi a Leopardi (non all'autore, proprio alla persona) significa dover trattare la materia più delicata e preziosa che esista: la sensibilità, sublime e fragilissima, di un poeta siderale e tremendo, che ha accolto nella sua carne le sofferenze ontologiche dell'intera umanità.
Un tentativo non molto distante dal mostrare un diamante rarissimo camminando su un filo a cento metri d'altezza: le possibilità di mandare in frantumi il prodigio di bellezza sono talmente elevate da indurre al tentativo solo un incosciente. Oppure un invasato d'amore, talmente folgorato dallo splendore del prodigio,  da esser disposto a rischiare la rovina, propria e dell'oggetto, pur di mostrarlo alla massima altezza, per consentirne la  migliore visione a tutti.
Leopardi è, assieme a Baudelaire, la voce poetica più alta e universale dell'Ottocento europeo (per tacere di William Blake, che collochiamo fra i profeti mistici).
Soprattutto, è un pensatore dalla lucidità spietata e inesorabile, una mente sconfinata, in grado di vedere profeticamente la china irrimediabile della decadenza moderna: "Di questa età superba,/ Che di vote speranze si nutrica,/ Vaga di ciance, e di virtù nemica;/ Stolta, che l'util chiede,/E inutile la vita/ Quindi più sempre divenir non vede".
Impossibile accostarsi alla fiamma del suo genio senza bruciarsi.


Chiariamo subito: il film merita onore per i molti, rari pregi del cinema martoniano, applicati col massimo della cura alla materia trattata. Il film è rigorosissimo, filologicamente maniacale, molto accurato nelle ricostruzioni storiche, facendo trapelare un rispetto quasi sacrale della figura leopardiana.
E di questo siamo grati.


La selezione degli attori (si, quella che con pigra arrendevolezza linguistica chiamiamo spesso casting) è a tratti definitiva: folgorante Silvia (Gloria Ghergo, nel suo innocente splendore, sembra l'incarnazione dei versi "beltà splendea/ negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi"), impeccabile il da noi sempre apprezzato Sandro Lombardi nei panni di Don Vincenzo, fredda e tremenda la madre interpretata da Raffaella Giordano, convincente il Pietro Giordani reso da Valerio Binasco, potente Paolo Graziosi come lo zio oppressivo, fedele e credibile la Fanny Targioni Tozzetti di Anna Mouglalis.

Gloria Ghergo nei panni di Teresa Fattorini, la Silvia leopardiana
Cenno a parte meritano i veri coprotagonisti: nella prima parte, notevole Massimo Popolizio nel restituire il complesso rapporto della figura paterna col figlio geniale (da un lato grande onore e affetto, dall'altro ossessiva brama di controllo); nella seconda, Michele Riondino ci presenta un Antonio Ranieri forse troppo "bello e tenebroso", ma crediamo che, in un'opera così ragionata, l'antinomia fraterna col poeta sia stata indicata dal regista, non sia frutto capriccioso dell'attore.
E il protagonista? Ci leviamo il cappello (intendiamo una tuba di quelle lunghissime) davanti ad Elio Germano, la sua interpretazione è prodezza di pudore e sensibilità. Ogni movimento potrebbe diventare macchietta, stereotipo, sfregio; ogni verso, celeberrimo, recitato una profanazione, uno stupro culturale, un marchio vergognoso. E invece, supremo è l'equilibrio, tra commozione e profondità, tra adesione mimetica e invenzione attoriale.
Una prova che definitivamente sancisce l'ingresso di Germano tra i grandissimi attori.



Affrontiamo ora, però, gli ostacoli di cui prima abbiamo accennato.
Come qualsiasi tentativo biografico, l'autore è costretto a tagliare, a scegliere, ad enfatizzare un aspetto e a trascurare altri.
Parlando di un autore dalla produzione sterminata, e tutta fondamentale, ogni scelta, direbbe Kierkegaard, porta angoscia.
Chi scrive ha tributato subito il suo dazio di lacrime al primo verso de La sera del dì di festa, "Dolce e chiara è la notte e senza vento...", sfogando emotivamente la profonda empatia con uno dei suoi prediletti auctores, potendo così poi osservare con maggiore distacco critico l'opera.



Incomprensibile, come da molti segnalato, l'utilizzo di una colonna sonora moderna (del dj berlinese Sacha Ring, pur premiato a Venezia) per sottolineare i versi sublimi ed eterni de L'Infinito. Stridente, in particolare, nella scena in cui il poeta scopre il rifiuto ipocrita della Tozzetti, fugge in lacrime, inciampa e singhiozza disperato. Scena straziante, resa magistralmente da Germano, amplificata da un intelligente movimento di camera.  Grande intuizione, il poeta dilaniato dalle sofferenze, accanto alla Natura indifferente, il silenzio l'avrebbe resa indimenticabile. Perché aggiungervi un moderno lamento soul? Perché non Chopin o, ripeto, i "sovrumani silenzi" cantati dal poeta? Straniamento brechtiano? Forse, i limiti dell'impostazione "civile" di Martone, che gli conferiscono il grande dono del rigore, in questi casi affiorano nel loro tentativo di cercare il "contatto" col pubblico.


A questo riguardo, è encomiabile invece come il regista si sia svincolato dai gangli della critica marxista, per darci una visione filosoficamente più complessa  del poeta. Se parte della visione eroica e protestataria del giovane Leopardiè certo figlia del famoso saggio di Cesare Luporini (Leopardi progressivo), Martone non lesina il sarcasmo dell'autore verso i progressisti liberali, sbeffeggiati nel testamento poetico dai versi stentorei ispirati dal panorama desertico del Vesuvio: "Dipinte in queste rive/ Son dell'umana gente/ Le magnifiche sorti e progressive".
Due volte Martone fa ribadire a Leopardi la sua comunanza con la visione degli orientali, distintamente gli indiani. Impossibile non pensare alla clamorosa coincidenza di date e idee con Schopenhauer (a cui abbiamo dedicato QUI alcune considerazioni), ma ancor più difficile appare negare il valore de L'Infinito come specchio perfetto di una meditazione sul non-dualismo.



Comprensibile, invece, la scelta, comunque coraggiosa, di affrontare subito il totem della "siepe", di far recitare, nell'ispirazione a voce alta, le tre poesie forse più celebri, o di menzionare le più note tra le lettere e le Operette Morali. Certo, vedere il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia (forse la vetta poetica della letteratura italiana moderna) ridotto ad esser citato in un dialogo su un ponte fiorentino con Giordani ci ha stretto il cuore. Ma comprendiamo la necessità di scegliere un itinerario narrativo, necessariamente manchevole e arbitrario in un'opera non seriale.
Veniamo, dunque, alle scene più controverse e coraggiose del film.


In primo luogo, sontuosa è la citazione del Dialogo della Natura e di un Islandese: per quanto ci discostiamo dalla facile lettura freudiana che identifica la madre del poeta con la Madre Natura, la resa è maestosa. Non solo, la scelta restituisce piena giustizia alla posizione filosofica di Leopardi che (come ha spiegato in un saggio fondamentale, Dio in Leopardiil grande intellettuale contemporaneo Giovanni Casoli) non si limita al freddo ateismo dei philosophes illuministi, ma diventa una titanica rivolta antiteistica, come il grandioso, e poco conosciuto, Inno ad Arimane testimonia.



Molto si è discusso, invece, sulla veridicità dell'episodio, umiliante e beffardo, con l'ermafrodito nei bassi napoletani: Martone si esalta nella rappresentazione della sua Napoli, vitale, carnascialesca, ribollente Suburra di vizio e umanità. Lo sguardo, che qui si fa quasi pasoliniano, redime ogni volgarità: è vero che gli scugnizzi bersagliavano di crudeli lazzi il povero poeta, è comunque di grande pudore, nel grottesco, l'approccio tragico del poeta al peccato misterioso della lussuria.

                                      

Alto compendio della vicenda esistenziale leopardiana è il finale, affidato ai versi sublimi de La Ginestra. Mentre il poeta enuncia le sue terribili eterne verità, lo sguardo di Martone esplora le desolazioni desertiche del Vesuvio, la pietrificata morte di Pompei, fino a condurci nel mistero annichilente del silenzio cosmico.
Una scena a livello di un finale di Tarkovskij.
Elio Germano si fa maschera tragica, visione stentorea dello sguardo poetico sull'abisso.
Ricorda il volto indimenticabile e quasi intollerabile dell'ultimo Nietzsche.


Una vetta attoriale che, crediamo, non sarebbe stata sgradita a Carmelo Bene (non a caso unica voce dei Canti nella nostra nota).
Dunque: la sfida impossibile è inevitabilmente persa. Ma, proprio come insegnano i versi leopardiani, già il tentativo, disperato, eroico, necessariamente fallimentare, merita ben più degli onori veneziani, il Leone d'Oro a Martone e il Premio Pasinetti a Elio Germano.
Merita rispetto e gratitudine.
Il tributo degno dei veri artisti.



TUTTI GLI ARTICOLI DI NOVEMBRE

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Novembre, la "Norvegia dell'anno" secondo la sublime Emily Dickinson, ci ha donato una messe ricca e varia.
Crediamo davvero di non avervi annoiato, ma per i lettori distratti ecco le prove di questa affermazione apparentemente così presuntuosa.
Forse, la nascita in questo mese di William Blake, il santo protettore del blog, ha propiziato tale gioiosa produttività.



Su Fumettologica, complice la frenetica tre giorni di Lucca Comics & Games, è stato un mese straordinario:

- Iniziamo con una delle interviste più interessanti e prestigiose della nostra breve e rocambolesca carriera: quella a Brian K.Vaughan, autore di alcune delle puntate migliori delle stagioni più riuscite di Lost. Per noi, dunque, quasi un eroe omerico. La conversazione, centrata sulla potente trilogia Saga disegnata da Fiona Staples,  l'abbiamo condivisa con Evil Monkey,  critico attento e arguto, e la trovate QUI



- La seconda intervista è un ibrido trionfante tra la chiacchierata fra due amici e la celebrazione di una vittoria: le riflessioni, a freddo, di Tuono Pettinato, la persona probabilmente più gentile dei tre lokas, sulla sua ultra-stra-mega -oltremeritata vittoria del Gran Guinigi come Autore Unico QUI



- La terza è la materializzazione di un sogno: quando nell'adolescenza mi dilettavo con le avventure dei Freak Brothers, mentre i vetusti mangianastri (eh, si, siamo invero adulti) amplificavano i blues disperati di Janis Joplin o le cattedrali psichedeliche dei versi dylaniani...beh, non mi sarei mai aspettato di raccogliere aneddoti su di loro proprio dall'autore di quelle dilettevoli avventure: Gilbert Shelton! Ecco QUI



- Siamo entrati nello studio di Toni Alfano, autore di Pompei, uno dei libri più interessanti usciti nell'anno. La visione della sua libreria mi ha svelato il perché della fascinazione che l'autore esercita sul sottoscritto: la compresenza di miei auctores (quali Céline), pensatori di riferimento assoluto (Jung in primis), testi per me letteralmente sacri (come l'immortale compendio di saggezza noto come Tao Te Ching) accanto a miei dichiarati "nemici" spirituali: il cialtrone affascinante Jodorowsky (ne parlammo qui) e uno criminale che nemmeno voglio nominare su queste colonne consacrate a Blake. Questa compresenza di profonde connessioni e divergenze della ricerca è certo un grande magnete intellettuale. Ecco QUI


- Una conversazione profonda su temi cruciali con Paco Roca, su I solchi del Destino, che come ha scritto Alessio Spataro, è "inaccettabile che non sia libro di testo scolastico". Uno sguardo colto e appassionato sulla stagione straordinaria e tragica della guerra civile di Spagna del '36. Soprattutto, sulle sue devastanti conseguenze QUI



 - Una delle interviste indubbiamente più prestigiose che abbia mai avuto il piacere di ottenere: Jutta Bauer, un premio Andersen, praticamente un Premio Nobel per la Letteratura per ragazzi. Una conversazione breve ma colma di saggezza: splendide le sue riflessioni sul potere dell'innocenza e sulla pura creatività dei bambini, QUI



- Proseguiamo con Enrique Fernandez e il suo I Racconti dell'Era del Cobra: ben più di un raffinato pastiche  una narrazione rocambolesca, pregna di citazioni e capovolgimenti di scena. EsploratelaQUI




- La chiacchierata divertita e colta con Squaz, in cui menzioniamo l'amico Don Pasta (QUI) e svisceriamo i tanti spunti del suo ultimo, adorabile volume L'EreditàQUI




Sul blog che state leggendo è iniziata l'annunciata svolta, che ci condurrà a virare sempre più sui temi prediletti della ricerca filosofica e della letteratura, pur contaminata con altre forme artistiche quali il cinema, la musica o il fumetto.

- Abbiamo iniziato col riassunto del mese precedente QUI(non perdetevi il racconto del concerto romano di MorrisseyQUI)

- Vi abbiamo raccontato le nostre impressioni su  La Cura Schopenhauer di Irvin YalomQUI



- Abbiamo speso meritate lodi per Alessandro Ponticelli e il suo irrespirabile Blatta QUI



- Abbiamo detto la nostra su Il Giovane Favoloso di Mario Martone, omaggio necessariamente impossibile al nostro ammirato Leopardi QUI



Per Dicembre c'è già tanto materiale pronto a uscire dall'impalpabile limbo delle potenzialità.
Speriamo di elargirvi degne strenne
Buona Lettura!


20.000 Days on Earth - La trasfigurante confessione di Nick Cave

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La prima riflessione che ispira la visione di 20.000 Days on Earthè che Nick Cave sia, in primo luogo, un magnifico scrittore.
Non una grande rivelazione, si obietterà, considerato che il magistero letterario del Nostro erompe in canzoni, poesie, romanzi, perfino un delirante fumetto, da più di 30 anni, temprando alla fiamma dello stile alto le intemperanze esplosive degli anni giovanili.
Amplieremo dunque la riflessione: la testimonianza, fondamentale, del film è quella di un artista autentico. L'indagine dell'ispirazione artistica, la ricerca disperante della fonte della creatività, di quell'oceano tempestoso, capricciosamente crudele e sovranamente misericordioso nel concedere i suoi doni divini, ecco: è questo l'argomento del documento ardente che abbiamo davanti agli occhi.
Non la vita dell'uomo, non la celebrazione dell'artista Nick Cave.
Il racconto dell'uomo e artista nudo davanti allo specchio, come nelle scene iniziali, pronto ad affrontare l'ennesima spietata introspezione, ad affondare lo sguardo nel proprio fango interiore, per poi estrarne l'oro incandescente della poesia.
E rimanere, come nei versi celebri del suo amato maestro Leonard Cohen, "al cospetto del Signore del Canto con nulla sulla lingua se non: Alleluja!".

Complice dell'incanto è certo la voce di Cave, così profonda, arroventata da mille folli esperienze da rendersi una fornace di sapienza pessimista: una voce che renderebbe tragica e intensa perfino la lettura delle istruzioni di un lassativo.


Chi cercherà in questo docudrama il racconto biografico, cronologico dell'idolo punk divenuto uno dei più raffinati cantautori contemporanei, rimarrà deluso.
Il film è una fotografia lucida del "qui ed ora".
Il fauno che si aggirava spiritato sul set del video Nick the Stripper con una bestemmia (in italiano!) vergata come uno sfregio sul petto, ora è un distinto, serissimo signore australiano, la cui eleganza costante a volte tradisce dei vezzi pacchiani da mafioso anni'30. Vive con l'adorata moglie e i figlioli in un angolo sereno di una città industriale inglese, lontano dal clamore londinese, dalla frenesia di Liverpool o dal vortice di nuove tendenze di Manchester.
Porge lo spettacolo dei suoi incubi con un eloquio forbito, un lessico impeccabile e prezioso, solo di rado screziato dall'accento australiano, quando, con tempi comici scientifici, spezza la melodia del monologo poetico con scintille di turpiloquio.


Non mi soffermerò sui pregi registici del film, evidenti alla visione, sulla fotografia in grado di trasfigurare, proprio come nei versi di Cave, il monotono cielo grigio di Brighton e farlo diventare visione apocalittica.
Ecco, dunque, il cuore della narrazione.
La trasfigurazione e la memoria, spesso fusi in reciproca simbiosi (trasfigurazione della memoria e memoria delle passate trasfigurazioni), sono questi i poli ossessivi della confessione di Cave.



Ripetiamo, non è un documentario su "Nick Cave", sulla sua carriera, sulla sua storia: non troverete filmati d'epoca dei Birthday Party; la travolgente passione con P.J. Harvey (nata proprio durante le riprese del conturbante video di Henry Lee); l'incontro quasi mistico a Glanstonbury con l'idolo Bob Dylan, che attraversò l'acqua che circonda la zona in zattera scendendo indistinto nella nebbia solo per dirgli "mi piace quello che fai"; l'emozione di cantare Suzanne di Cohen dal vivo, dopo aver ricevuto i complimenti di Cohen per l'indemoniata versione di Avalanche; non troverete nemmeno il formidabile trio improvvisato con Henry Rollins e Jello Biafra che cantano Deannasenza sapere le parole.




Tutto questo, Nick Cave ce lo ha già raccontato. Per essere precisi, come ogni vero artista, Cave non fa altro che raccontarsi.
Il suo inferno interiore lo ha scandagliato già in quasi venti dischi, quattro romanzi, tre sceneggiature: una costante eruzione autobiografica.
Ora ci mostra dove è giunto dopo tutto quel tremendo, documentatissimo, cammino infernale.
Siamo di fronte alla testimonianza di un autore davanti all'abisso della pagina bianca.
Il processo creativo (memoria e trasfigurazione) ci viene restituito in tutta la sua primordiale innocenza. Cave ci descrive, sfiorando l'ineffabile, il momento inafferrabile in cui la canzone, prima di essere addomesticata nella forma convenzionale, "è lei a comandare", selvaggia, sorgiva, purissima nella sua informe manifestazione dalle lande dell'inconscio.
Ne è splendido esempio la versione di Higg's Boson Blues, in studio, improvvisata, in un fecondo e commovente in fieri;  forse l'ultimo grande capolavoro della narrazione di Cave: una cavalcata delirante di immagini discordanti, lacerata tra lo scetticismo caustico e la perenne, insoddisfatta ricerca di Dio.



Il gioco, appunto, trasfigurativo, da sempre è giocato su antinomie che dilaniano l'interiorità.
Come nel folle passato alternava il consumo di droghe alla messa quotidiana, per cercare un "folle equilibrio", così la concordia oppositorumè cercata, inseguita, corteggiata in ogni manifestazione dell'autore: il culto del proprio ego (fiamma necessaria ad alimentare l'incendio della rockstar) è bilanciato dal terrore dello smarrimento della propria identità; l'evidente autocompiacimento è sfumato da una costante autoironia; gli eccessi osceni sul palco sono il rovescio di una silenziosa introversione.
Illuminante il paradosso di Cave che legge auto-ironicamente il proprio testamento, redatto da giovane non ancora famoso, in cui dispone di lasciare tutto al Nick Cave Memorial Museum, e irride  quella sua egoica fantasia giovanile...ma lo fa all'interno del proprio archivio ufficiale: ancora una volta la trasfigurazione della memoria, come realizzazione nel presente.
Cave è diventato quello che ha sempre voluto essere: qualcun altro.
Proprio in questo, ha manifestato pienamente la propria personalità.
Diventa, dunque, se stesso proprio attraverso la trasfigurazione.
Pur dichiarando l'importanza esistenziale, quasi ontologica della memoria ("la memoria è ciò che siamo", dice, la sua più grande paura è smarrirla), pur essendo la narrazione fondata sul rapporto col passato, in realtà il racconto affronta il vivo divenire attuale.
Il film testimonia il presente dell'autore, la difficile maturità infestata da demoni antichi, il precario equilibrio inseguito nel "qui e ora", dopo i vent'anni di delirio infernale che ha riversato in una discografia straordinaria.


La perenne lotta tra Bene e Male (come nelle rappresentazione medievali) è in ogni accenno, parola, ricordo: la grazia narrativa con cui Cave ci affabula redime ogni sconcezza, come nel delizioso aneddoto punk dell'orinatore sul palco, o nel racconto degli anni schizofrenici di Berlino.
Come Chris, il vicino di casa  berlinese che aveva costruito la sua camera a guisa di un tempio natalizio, ma che luci spente diveniva un santuario d' immagini pornografiche d'antan, in maniera inversamente proporzionale Cave ci mostra il risvolto positivo della sua vita, il rovescio dell'altarino satanico eretto per vent'anni con la sua arte.



Per chi conosce i testi, con rigore filologico, appare ancora più evidente, esposto, il gioco di contrasti, composto da nunerose allusioni, richiami interni, autocitazioni e autoparodie.
Le immagini, paradossalmente sconvolgenti, di Cave che mangia la pizza guardando la tv con i figli sono accostate all'esecuzione dal vivo di Stagger Lee, forse il brano più violento e osceno del cantautore, circondato da groupies in adorazione.
Ma, per quel che ci riguarda, non  c'è contraddizione, né agiografia auto-assolutoria (come il nostro stimato amico Mauro Uzzeo, col quale condividemmo l'esperienza del grandioso concerto romano, ha lamentato): è appunto la trasfigurazione il gioco proposto. Ma, attenzione, non è banale: Cave si trasfigura in un demone, in uno stupratore, in un emissario di Satana (come disse scherzando ripensando ai Birthday Party) per poi ri-trasfigurarsi nel benevolo padre di famiglia, e così via in un circolo psichicamente vizioso e artisticamente virtuoso fino alla santità.
Un circolo di menzogne? L'autenticità è proprio nel mostrarlo.
Lo dice benissimo Blixa Bargeld, figura geniale, nella sua breve apparizione (i pensieri e i ricordi di Cave si materializzano come dialoghi con gli effettivi compagni di viaggio del passato).

Cave, come tutti i personaggi delle sue canzoni, è intimamente dostoevskijano: esplora il Male fino alla bestemmia per poi trovarci squarci accecanti di luce, che diventano commosse, impossibili preghiere atee (Into my arms, Oh Lord, As i sat sadly by her Side).



Sommamente dostoevskijano è il protagonista di Jubilee Street: la trasfigurazione, ancora, trionfale è quella dell'assassino vigliacco che uccide la prostituta perché scopre che il suo nome era nel diario della ragazza. Un Raskolnikov senza redenzione, che s'illude di averla scampata.
Da qui, la quasi demente ebbrezza che Cave simula sul palco.




Qui, ad esempio la scelta di non sottotitolare anche i testi delle canzoni fa smarrire un inside joke che pochi hanno colto: l'esibizione del brano è introdotta da uno splendido monologo che inizia "la canzone è eroica perché affronta la morte, è immortale...", e termina dicendo che un giorno la canzone, spera, gli insegnerà a "uccidere il dragone".
Bene, l'esibizione è registrata all'Opera House di Sydney.
Ora, non solo le celebri vele danno all'edificio la forma di un dragone, come a volte viene indicato dai locali. Ma per Nick Cave, osteggiato e ignorato nella sua patria per anni (l'ultimo album è stato il primo a divenire n.1 dopo una carriera di successi internazionali), nemico della sua patria fino ad essere fiero di essere definito "Australia's Nightmare" (nel senso di incubo per l'Australia), quel luogo, simbolo architettonico del suo Paese, è il dragone da uccidere.
Il tempio da profanare.
La trasfigurazione è completa: il cantante che urla "Look at me now!", celebrando la salvezza di un assassino con un coro di bambini e l'orchestra classica in uno dei luoghi simbolo della musica colta nel mondo, non sta solo rivendicando il proprio successo al pubblico di casa, una volta ostile.
Sta esponendo la propria possessione, il proprio dolore, da figliol prodigo, non pentito ma fiero di aver abbracciato la sua Ombra.
Guardatemi ora, sono una delle rockstar più  famose del mondo, sono un assassino libero,sono un uomo che soffre, sono un poeta, verrebbe da aggiungere evocando i celebri versi baudelariani, "ipocrita lettore - mio simile - fratello!".



In calce al film potrebbe esserci il più famoso dei Proverbi Infernali del nostro amato William Blake: "La Via dell' Eccesso conduce al Palazzo della Saggezza".
Un aforisma splendente, e frainteso, tratto tra il Matrimonio di Cielo e Inferno. 
Del quale matrimonio Nick Caveè il meraviglioso figlio bastardo.


                                          


Non a caso, il monologo finale (che invero può apparire artefatto se non si coglie il senso del gioco trasfigurativo) svela  le carte: il cantore dello stupro e della necrofilia, il demone incarnato, colui che è riuscito a portare su Top of the Pops un brano che aveva come messaggio "Tutta la Bellezza deve morire", si rivela portatore di una saggezza eterna, che dalla Bhagavad Gita passa per il III canto dell'Inferno di Dante (quello degli ignavi).
E come in un meraviglioso racconto di I.B. Singer, come nelle pagine più luminose di Blake, C.S. Lewis o Chesterton, l'ultima parola, che chiude la testimonianza sulla lotta interiore dell'artista con i suoi demoni, è il senso della vita: gioia.









66 Demonietti - di Michele Hiki Falcone

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Il Demone del Nulla
Ora che l'ultima illustrazione è stata pubblicata, che l'ultima pietra della cattedrale è stata posta, posso finalmente parlarvene.
Poche cose, negli ultimi tempi, mi hanno colpito come la serie di illustrazioni di Michele Hiki Falcone intitolata 66 demonietti.
Per chi, come me, è allergico a qualsiasi compiacimento satanico d'accatto, e usa i testi e le immagini del pagliaccio Crowley come emetico, tema e referenze numerologiche non erano il più seducente dei biglietti da visita.
Eppure, al primo sguardo, ho visto pulsare, tra le pieghe del segno di Hiki, il battito della ricerca, ho udito, osservando in tralìce, l'urlo strozzato di una tensione gnostica.
Ho compreso subito che non si trattava di un manualetto per imbecilli in vena di facile blasfemie.
Ho sentito che dietro l'elencazione dettagliata dei diversi volti del Maligno non c'era la sciocca celebrazione del negativo, bensì l'urgenza di dare forma ai propri demoni, per esorcizzarli tramite il controllo artistico.
Ho visto la sua visione, ho percepito la sua sofferenza, ho scrutato le sue piaghe interiori, le ferite della sua anima, il cui balsamo inebriante è il succo vitale di una ricerca inquieta.
Ho capito insomma che la sua testimonianza alzava al cielo lo scettro della vera arte: era autentica.

Il Demone del Tradimento

Hiki ha guardato in faccia ognuno di questi demoni da vicino.

Il Demone della Violenza
Giocando con le dotte parole di derivazione greca, dalla catabasi è giunto alla catarsi,
La fascinazione maggiore è stata rappresentata, come sempre, da un paradosso: come all'interno immagini a prima vista minuscole si possa celare l'abisso di una riflessione esistenziale, l'oceano di esperienza che tempra l'uomo alla fiamma della sofferenza per restituire alchemicamente ad ognuno il proprio dolore sotto forma di sapienza.

Il Demone della Depressione
Dunque, tale è il potere contagioso dell'arte, mi ha spontaneamente mosso a commentare ognuna di queste immagini. La sua introspezione grafica mi ha imposto una mia pubblica introspezione letteraria.
Primo immediato, supremo riferimento sono state per me Le lettere di Berlicche di C.S.Lewis, uno dei libri più geniali del Novecento. Un paradossale resoconto immaginario dell'apprendistato di un giovane demonietto: una sorta di vademecum della possessione, in cui un demone adulto, veterano, dispensa i suoi consigli al giovane collega su come tentare le sue vittime, rivelando in questo modo una introspezione feroce e severissima, pur sfumata dal dono di un umorismo sapienziale.
Dunque (ecco il mio delirio), partendo da una citazione, colta o ironica, di un autore famoso (dalla filosofia al cinema alla musica) sulla qualità demoniaca illustrata, avrei potuto offrire una meditazione intellettuale a corredo dell'immagine.
Sono mesi che vi penso, che nelle pause tra i rocamboleschi spostamenti quotidiani, sulle rive dei mille rivoli della mia creatività, al termine di un articolo o nel mezzo di una meditazione, m'assediano intuizioni, giochi di parole, riferimenti, calembour o confessioni, ispirate dalle illustrazioni, insieme scarne e barocche, di Hiki.
Ora basta.
È tempo di iniziare l'opera.

Michele Hiki Falcone, al termine dell'opera



DIMENTICA IL MIO NOME - la prova di maturità di Zerocalcare

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Oggi è il compleanno di Michele Rech. 
Un ragazzo che ho avuto il piacere di conoscere in alcune occasioni, in cui si è sempre rivelato di una gentilezza disarmante, di una disponibilità quasi imbarazzante, tale da collocarlo indiscutibilmente nell'ambito della santità laica.
Un ragazzo onesto, molto serio, ispirato da ideali alti e difficili da rispettare nella società contemporanea, che lui (tra mille paranoie e paletti morali in granito) fa di tutto per onorare.
Ah, tra l'altro, è il fenomeno editoriale italiano degli ultimi tre anni.
Tutti lo conoscono come Zerocalcare.

Circa un anno fa (per la precisione 51 settimane) Andrea Coccia e il sottoscritto ci incontrammo sul ring de Linkiesta per dibattere insieme sul "fenomeno" Zerocalcare.
Io, per modo di dire, "pro", Andrea, per modo di dire, "contro".
Andrea rifletteva seriamente sulle possibili ripercussioni negative del successo travolgente e della iper-produttività (quattro libri in un anno) dell'autore sul mercato (e sull'autore stesso); io, nei panni a me inusuali dell'avvocato della tesi più popolare, mi spericolavo in una complessa indagine sulle radici nobili della comicità irresistibile di Zero.
In realtà al di là del format accattivante, entrambi di fondo concordavamo: dietro ai nostri articoli contrapposti ci univa la stima, direi anche l'affetto, per l'autore e l'apprezzamento per i suoi libri (la nostra giocosa sfida la trovate QUI).
L'occasione del dibattito era la pubblicazione di Dodici.
In realtà, Zerocalcare, nella nostra amabile conversazione a casa sua pubblicata su FUMETTOLOGICA (QUI) aveva già chiarito come il libro fosse una sorta di prova generale per il successivo: " sto lavorando a lungo termine su un progetto solo (...)  il progetto principale, al quale sto lavorando da quasi un anno e che adesso pare finalmente arrivato alla fase di disegno, è questo: una storia lunga che riguarda un pezzo importante della mia storia familiare, nell'arco di tre generazioni, mia nonna, mia madre e me. Una storia in parte vera, in parte romanzata, che riguarda delle storie che mi sono state raccontate quattro anni fa da mia madre (...) una storia con una gestazione super-lunga, poiché è stato complicato innanzitutto comprendere cosa poteva essere raccontato e cosa no. (...)  Sia “Dodici” che, in parte, “Un polpo alla gola” sono stati pensati come banchi di prova per questa storia. Esperienze che mi sono servite molto. Ad esempio, con “Dodici” ho capito quali sono i miei limiti. Ho compreso che la narrazione lunga, con un continuo temporale, senza spezzettamenti narrativi…mi annoia! E quando mi annoio a fare una cosa in qualche modo restituisco questa impressione al lettore. Probabilmente, quindi, questa nuova storia, pur essendo lunga, procederà per moduli narrativi più brevi".

La copertina variant del libro, realizzata assieme a Gipi, del quale anche oggi ricorre il compleanno 

Parlava, ovviamente, di Dimentica il mio nome, due giorni fa dichiarato dagli ascoltatori di Fahreneit  "libro dell'anno".
Un anno dopo, il libro ha conquistato proprio Andrea Coccia, rispondendo in un certo senso sul campo alle precedenti legittime osservazioni di quest'ultimo.
Crediamo che Andrea sia stato il primo ad essere felice nel riconoscere le doti del libro, esattamente quelli che nell'articolo indica come i "fattori incatenati" che definiscono la vera arte: "onestà, fedeltà (o schiavitù?) ai propri demoni, ossessione per il tempo perduto, per il passato".
Ciò che Coccia ha apprezzato del nuovo libro è soprattutto il coraggio di affrontare la propria storia privata, i recessi intimi del proprio passato: "Con Dimentica il mio nome, infatti, Zero — per quanto mi riguarda finalmente — prende in mano frammenti del suo vissuto famigliare, li mischia con una sana (e potente, e funzionale, e ben gestita) dose di reinvenzione fantastica, affrontando — anche qui, per quanto mi riguarda, finalmente — le proprie ossessioni faccia a faccia, andando a inseguire i vuoti della memoria, riempiendoli con il proprio immaginario, risolvendo narrativamente i conti con un passato, quello famigliare, mai affrontato" (ecco QUI  l'articolo integrale).
Ovviamente, Zerocalcare, col suo puntuale senso comico, ha colto subito il paradosso potenziale del rovesciamento di opinioni.


Dunque, mi è piaciuto?

In realtà, quello che penso, gliel'ho già detto di persona durante la nostra ultima conversazione a Più Libri, Più Liberi (la trovate QUI).
Il libro oggettivamente è il crocevia della carriera di Zerocalcare.
In un certo senso, ha vuotato il sacco completamente sulla sua adolescenza, o quantomeno sull'approccio adolescenziale, su quell'immaginario, comune a molti (compreso il sottoscritto), in cui si è riconosciuta, emotivamente, un'intera generazione.
Infatti, nell'intervista conferma: "il libro rappresenta a pieno quello che volevo fare. Sento anche che in qualche modo rappresenta la fine di un ciclo. Per la prima volta, se penso a cosa devo fare in futuro, ho il vuoto cosmico."
Non a caso, quando gli pongo la domanda di rito sui progetti per il futuro, se la cava con una dedica da incorniciare in oro bianco:



(chi conosce le modalità del mio matrimonio sa che compongono una storia a metà tra Amici Miei e Un treno per Darjeeling,).

Analizziamo ora, brevemente, il libro.
Il primo dato è che, indubbiamente, tutto appare più serio.
Non serioso, ma consapevole, maturo, meditato.
Non mancano, ovviamente, i classici luoghi di riconoscimento grafico-narrativi adorati dai fan (l'Armadillo, i personaggi dei cartoni animati come maschere della nostra interiorità, Rebibbia e The Clash etc.). Ma sono inseriti in un contesto più ampio, più profondo, immersi in un chiaroscuro interiore che li rende gradevoli punti di riferimento, non protagonisti nell'economia narrativa.
L'autore insegue meno la risata, ma quando la trova la fa esplodere ancora più potente.
Zero ci regala alcune perle aforistiche degne di essere mandate istantaneamente a memoria ("La morte è la prima causa di accolli in Occidente", "Nella scala dell'abbrutimento umano,  Downtown Abbey si situa tra la masturbazione ore pasti e l'eroina", "Dice che il dolore fortifica. Ti fa le ossa, dice. Diventi uomo. Dice."), ma è chiaro che qui l'umorismo è un mezzo per traghettarci nell'inquieto fiume dell'introspezione.
Se l'accusa, spesso rivolta (a volte snobisticamente ma altre no) ai libri di Zero era quella di essere sempre, si, gradevoli, divertenti, ma limitati alla superficie della quotidianità, stavolta ci si addentra nelle pieghe oscure della propria memoria negata, del passato occulto, rimosso, alla ricerca delle proprie radici.
L'umorismo è benedetto, perché salva dal precipizio scivoloso della retorica, mantenendo l'autore sul filo di una narrazione sostanzialmente equilibrata.
Certo, a volte si concede un po' troppo la risata nei momenti topici, come si volesse esorcizzare la tensione degli snodi narrativi più intensi (la gag della carpa fellatrice fa esplodere il riso ma sgonfia la massima tensione costruita per tutto il libro), quasi si volesse rimanere con un piede nello sguardo adolescenziale (quando il tema del libro è proprio l'uscita forzata dalla spensieratezza, l'ingresso traumatico nella consapevolezza adulta).
Chiaramente, (è ovvio per me, ma per molti pare di no): non è Pazienza, non è Gipi (a proposito: auguri, Gianni!).
Non vi vedo nulla di strano: è Zerocalcare.
Il dado, comunque, è tratto.
La propria vita privata, almeno dal punta di vista post-adolescenziale, è stata scandagliata, canzonata, trasfigurata, resa luogo comune (in senso buono) generazionale, per alcuni aspetti esaurita come fonte d'ispirazione.
Più che un libro riuscito, a mio modesto giudizio è un libro importante.
Zero si è liberato dei fantasmi, si è scrollato di dosso le risate facili  e le pacche sulle spalle.
Ora, davvero, egli può (con tutta la calma del mondo) cominciare a diventare un grande narratore contemporaneo.
Il prossimo passo (non per il recente viaggio a Kobane, ma per una militanza ormai ventennale) potrebbe essere affrontare direttamente tematiche sociali?
 Si, lo so, è una mia ossessione (eppure ho sempre preferito Artaud a Brecht, Elémire Zolla a Umberto Eco).
Anche qui Zero, nell'ultima intervista, mi ha risposto con onestà e coerenza: "le opere di natura politica secondo me devono essere affrontate e raccontate collettivamente, devono essere il prodotto di una collettività. Io non penso che un singolo si possa svegliare la mattina e farsi portavoce del popolo.".
Ineccepibile.
Dunque, a questo punto un giornalista esperto lancerebbe il titolo per accalappiare i lettori: "Dove sta andando Zerocalcare?"
Francamente, spero ad una splendida serata con i suoi amici, per celebrare il suo trentunesimo compleanno.
Lasciamolo in pace. il ragazzo sa quello che fa.

Il miracolo di Mabel Morri - un anticlericale sul pulpito

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Una battaglia iniziata nell'infanzia

A 10 anni rifiutai fieramente di fare la comunione.
Non per incipiente ateismo, attenzione, ma per l'intuizione infantile della ricerca spirituale che presto avrebbe ispirato il mio percorso intellettuale.
Preferivo di gran lunga rimanere a casa ad ascoltare, all'epoca, Prince o i Kool & the Gang piuttosto che appassire di noia al morto odore delle candele, ascoltando le tediose, vuote prediche a cui eravamo sottoposti.
Ricordo che un pomeriggio ero particolarmente contrariato, avevo già saltato numerose "lezioni", mi recai quasi di scatto alla parrocchia, con piglio risolutore.
Non per caso, il teatro fu la Basilica di Paolo, il Grande Deformatore.
(Curioso come il karma ci spedisca a combattere a testa alta nel cuore della roccaforte nemica).
Ascoltai nervoso il grandioso racconto gnostico della Genesi distorto e ridotto a storiella innocua e, una volta giunti alla maledizione di Caino, alzai la mano e chiesi alla, pur gentile, catechista:
"Mi scusi, il racconto inizia dicendo che Dio ha creato Adamo ed Eva. Dopo la cacciata dal Paradiso, essi mettono al mondo Caino ed Abele. Caino uccide Abele e viene maledetto.
Dunque, egli fugge a Nord e fonda una città.
Con chi? Chi erano le altre persone? Se erano stati creati solo Adamo ed Eva e loro erano gli unici figli, come è possibile?".
La catechista, indubbiamente spiazzata, farfugliò una classica risposta sull'autorità indiscutibile del testo rivelato, al che sbottai: "Non siete in grado di rispondere a una domanda di un bambino di dieci anni. Non avete nulla da insegnarmi".
E me ne andai, chiudendo per sempre il mio rapporto con il Cattolicesimo, e destando non poco clamore in una famiglia il cui nonno paterno era cresciuto a Borgo Pio, il rione costruito attorno alla Basilica di S.Pietro (e sventrato dall'idiozia del Duce).
Si, lo so cosa state pensando: già a quell'età eri un bel rompiscatole.

Rashi di Troyes, il più celebre esegeta biblico in ambito ebraico

Solo anni dopo consultati l'esegesi di Rashi di Troyes che giustifica l'incesto dei due fratelli con le gemelle rispettive per far proseguire la specie e, soprattutto, l'interpretazione cabalistica del termine Adam come "genere umano" (da cui la figura straordinaria dell'Adam Qadmon, l'uomo primordiale allegoria dell'Albero della Vita... nome sacro appioppato ora alle pagliacciate complottiste sui canali di regime).

Uno schema cabalistico dell'Adam Qadmon

Perché, vi chiederete, questa premessa biografica?
Per raccontarvi, in armonia col periodo natalizio, un miracolo avvenuto in una chiesa.




Un invito inatteso

Alcuni mesi fa sono stato contattato da Mabel Morri per invitarmi a presentare la più imprevedibile delle presentazioni: l'inaugurazione ufficiale della Chiesa di S.Martino in Riparotta, a Rimini, integralmente illustrata da lei a fumetti.
Un onore, non solo per la stima gentilmente espressami  da Mabel, ma anche per la eccezionalità dell'evento.
                       

                     
Come si è pervenuti a questa collaborazione culturale ce lo racconta lei QUI.
In occasione della presentazione realizzammo  QUESTA intervista in cui spiega bene tutta l'evoluzione cronologica del progetto (in seguito ci farà entrare nel suo studio, finora unico caso su Fumettologica, con un'intervista disegnata che trovate QUI).
Dunque, non mi addentro ora nell'analisi della rilettura della tradizine che Mabel ha avverato, con rispetto ma anche con libertà creativa: spiega tutto molto bene lei nella nostra conversazione.
Preferisco raccontarvi cosa mi ha atteso a Rimini, oltre a una indimenticabile piadina ed alla cortesia di Mabel.


Una sinfonia di coincidenze *

Una serie di illuminanti sincronicità mi ha accolto maternamente, facendomi subito sentire a casa.
i versi sublimi che aprono il 33° canto del Paradiso, la sublime preghiera che Dante fa recitare da Bernardo di Chiaravalle alla Vergine, campeggiano nel loro intatto splendore sull'altare (unico caso credo al mondo):

Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio...




E poi, la più illuminante delle coincidenze...
                                       
Carl Jung avrebbe sogghignato

Mi ha sempre dato fastidio la visione del crocifisso.
No, non sono posseduto dal Demonio (almeno credo).
E non è nemmeno una forma di sdegnosa fierezza come il gesto finale di Giordano Bruno sul luogo del suo martirio laico.



È proprio per rispetto del valore universale della figura cristica che non ne sopporto la visione.
Perché celebrare un dio risorto immortalandolo nel momento di massima sofferenza e umiliazione?
Perché enfatizzare il momento, transitorio e subordinato, della morte e non quello, trionfale e definitivo, della Resurrezione? Perché non sottolineare la sua specificità divina nel superare i limiti della materia, invece di congelarlo nella sofferenza comune a tanti uomini?
Certo, il motivo è chiaro: costruire un impero sul senso di colpa.
Chi scrive preferisce la rappresentazione michelangiolesca de il "Cristo la Tigre" di T.S. Eliot (o il Leone risorto di C.S.Lewis). glorificato in tutta la sua Potenza, a quella lacrimevole o morbosa di derivazione grunewaldiana (il cui apice intollerabile è stato messo in scena dalle ossessioni di Mel Gibson).


Non crediamo che Il Cristo, se tornasse sulla terra, apprezzerebbe.
Ne dà splendida rappresentazione, pur con un linguaggio ben poco solenne, il geniale Bill Hicks in questa gag:

                                       

Ebbene, per un contrattempo tecnico, quella sera alla Chiesa di S.Martino la croce di legno non è pervenuta.
Rendiamoci conto: in una chiesa, appena inaugurata, non è arrivato il crocifisso di legno.
Dunque, il corpo del Cristo appariva libero,  rapito, sospeso nella sua ascensione celeste.
Libero dal peso di duemila anni di menzogne.

                                     
Gnosi e Resurrezione in Caravaggio
Un paradossale onore

Aver avuto la possibilità di fare queste riflessioni ad alta voce, dal pulpito di una chiesa, è stato davvero un'esperienza culturalmente straordinaria.
Il livello degli interventi è stato molto alto.
Ho apprezzato in particolare l'intervento dello storico dell'arte Alessandro Giovanardi, che ha illustrato con grande competenza il valore allegorico ed esoterico dell'arte.
Un plauso va anche all'ingegnere Pino Ferri, di fatto lui "scopritore" di Mabel come potenziale illustratrice della chiesa.
                               
S.Martino visto da Mabel Morri

Un doveroso ringraziamento

A questo punto, da fiero anticlericale che ha tra i suoi auctores campioni del cattolicesimo quali Chesterton e T.S.Eliot, devo porre i miei omaggi a un esponente, uno finalmente degno, della "squadra avversaria".

                                        

-  Considerando che l'opera precedente di Mabel era Cinquecento milioni di stelle, una sentita celebrazione dell'amore lesbico e in generale del diritto ad amare chi si desidera, al di là delle convenzioni sociali;

                                      

- Aggiungendo che la volta della chiesa è stata commissionata a Eron, il noto street artist, eccellenza riminese ma non certo un chierichetto modello;
                                     
La volta di Eron

-  Testimoniando, in conclusione, come nella presentazione si sia liberamente parlato di Gnosi, meditazione e ricerca spirituale esterna alla Chiesa ...
Beh,  indubbiamente, invito  tutti a levarsi il cappello davanti all'apertura mentale di Don Danilo Manduchi. Per una serata, ha reso vivi i versi (idealmente sublimi ma grottescamente smentiti dalla realtà) deI Cori da "La Rocca" di T.S.Eliot:

Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre sopra la faccia dell'abisso.
È la Chiesa che ha abbandonato l'umanità, o è l'umanità che ha abbandonato la Chiesa?
Quando la Chiesa non è più considerata e neanche contrastata, e gli uomini hanno dimenticato
Tutti gli dei, salvo l'Usura, la Lussuria e il Potere.

                                       
Il grande T.S. Eliot

Soprattutto, il vero miracolo è stato ridare alla parola "chiesa"(divenuta sinonimo da secoli di un'istituzione marcia, distante fino ad essere contrapposta al messaggio originale del Cristo) il suo stupendo significato etimologico (affine a quello di sinagoga, religione, Yoga): ἐκκλησία, ekklēsía, ovvero "assemblea del popolo".
Un autentico dono essere stato l'anfitrione culturale di un tale evento.
Grazie Mabel.
                       


(Bonus track)*

Un incontro illuminante

Questo paragrafo sarà volontariamente frammentario, lasciando tutto per implicito.

Nel seguire il percorso le mie riflessioni a voce alta, dal pulpito, dicendo cose che qualche decennio fa mi avrebbero guadagnato un processo per blasfemia, ho menzionato come riferimento assoluto nella mia ricerca Shri Mataji Nirmala Devi.

A fine serata, Luca Genovese mi parla di una sua storia a fumetti di 10 anni fa, Sahasrara.

L'articolo di Mabel, in cui racconta la storia del progetto, è del 5 maggio.

Unite i puntini.



Tutti gli articoli di Dicembre

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Cari lettori,
per la fine del 2014 non vi ho inflitto né classifiche, né boriosi bilanci di fine anno.
Abbiamo preferito andare avanti implacabilmente, scrivendo molto durante le supposte vacanze, dedicandoci non solo ad articoli destinati al blog ma a progetti ben più ad ampio respiro.

Ecco quindi, il riassunto delle fatiche dicembrine.
Consentitemi di attingere all'abusata immagine dei botti di capodanno.
                         

Su FUMETTOLOGICA abbiamo pubblicato:

- L'intervista sul ritorno a Infierno di Silvia Ziche e Tito Faraci dopo 15 anni QUI
                           
                             
- La conversazione con Zerocalcare  a Più Libri, Più Liberi, nel corso d'una delle sue proverbialmente infinite sessioni di dediche  QUI
                             

- La conversazione, più che fiume, oceano con LRNZ sui significati nascosti di GOLEM, opera imperdibile che uscirà il 9 gennaio nelle librerie e nelle fumetterie. Più che un'intervista, il riassunto, interminabile, di vent'anni di confronto intellettuale QUI
                                           

- La conversazione con Massimo Giacon e Tiziano Scarpa su Il Mondo così com'è: non capita tutti i giorni di parlare con un Premio Strega e uno dei massimi esponenti del design nostrano. QUI
                                 
     
Su queste deliranti colonne, invece, abbiamo parlato di :

- L'articolo precedente di questa serie sugli articoli di Novembre, da Schopenhauer a Leopardi, da Tuono Pettinato a Shelton a Vaughan QUI
                           

- La recensione di 20.000 days on Earth, il controverso e affascinante documentario biografico su Nick Cave QUI
                             

- La dichiarazione solenne del progetto 66 demonietti assieme a Michele Hiki Falcone, delle cui illustrazioni sto stendendo corrispondenti commenti, si oserebbe dire, poetico-filosofici QUI
                                       

- La recensione, dobbiamo ammetterlo, particolarmente apprezzata di Dimentica il mio Nome di Zerocalcare QUI
                                       

- E, per concludere, il racconto della splendida serata a S.Martino in Riparotta, in Rimini, per l'inaugurazione della chiesa illustrata da Mabel Morri QUI
                                             

Lentamente, ma inesorabilmente (come luogo comune impone), il blog sta assumendo il carattere di un diario personale in cui dedicarmi a ciò che intimamente mi avvince, la ricerca filosofica e la riflessione letteriaria.
Oltre a Fumettologica, un'altra collaborazione sta per partire.
Ma, in barba allo scientismo dominante, tacciamo per rigorosa scaramanzia.

Buona Lettura!

Da Caligola a Edoardo II - il colto delirio antistorico di Andrea Foschini

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 In calce all'intera, fiammeggiante, straripante fino ad essere respingente, opera letteraria di Andrea Foschini (di cui già concedemmo ampia e generale introduzione QUI) potrebbe essere apposta una delle più eleganti e riuscite intuizioni di Emil Ciorian"Nella storia sono significativi soltanto i periodi di decadenza, poiché allora si pongono tutte le questioni dell'esistenza in generale e quelle della storia in quanto tale".

V'è un quid ironico nell'affrontare secondo i dettami illusori di Krònos due opere che testimoniano l'urgenza di apporre, majakovskijanamente, il proprio nihil sul Tempo stesso.

Tant'è, sia le vicende storiche che i testi di riferimento concordano nella successione.
Si inizi, dunque, da Caligola - Poeta del sangue.
                                       


Se per Caracalla era evidente il richiamo alla prosa suprema e ardente    dell'Eliogabalo d'Artaud (ben prima delle pur mirabili rielaborazioni yourcenariane delle Memorie di Adriano) e, concettualmente, al Lorenzacciodi Carmelo Bene, in questo caso appare obbligatorio riferirci al numinoso precedente: quel capolavoro tremendo che è il Caligola di Albert Camus, nero vangelo della nostra seconda adolescenza.

Non è mera coincidenza che a quel testo abissale sia legato l'esordio teatrale, nel '59, proprio dell'uomo destinato a incarnare con modi scandalosamente inattuali l'idea antica di Teatro nel grigiore moderno: il più volte citato Carmelo Bene.
Vale la pena di raccontare il meraviglioso aneddoto: il giovane CB, indisciplinato allievo dell'Accademia romana, si reca a Parigi per incontrare il maestro Camus, avendo egli espresso insoddisfazione per la rappresentazione parigina del suo testo, e chiedere i diritti d'autore per metterlo in scena in Italia.                                                    
Un raro scatto dal Caligola interpretato da Carmelo Bene

Per una beffa, perfettamente in accordo con i due personaggi, Camus si trovava in realtà in Italia, a Venezia, per un adattamento alla Fenice de I Demoni di Dostoevskij (vertigini intellettuali al sol pensiero!).  Non ci immaginiamo certo il giovane Bene come un tipo arrendevole, dunque giunto rocambolescamente all'albergo veneziano ove risiedeva il geniale filosofo, egli lo incontra. 
Quando a proposta ricevuta, Camus chiederà: "Chi reciterà Caligola?", il giovane Carmelo Bene risponderà: "Io non le basto, Maestro?".
Camus cedette i diritti in cambio di un posto in prima fila per la prima.
A cui come sappiamo non potette assistere, per una beffa ben più tragica del Destino, il tragico incidente automobilistico, a fianco dell'editore Gallimard, dei primi giorni del 1960.
                              
                         
Torniamo a Foschini, e alle sue pagine incendiarie e fascinosamente pericolose.
Ben lungi dalle orge patinate di Tinto Brass, qui Caligola torna a vibrare nella sua ferina potenza simbolica: Caligola che fa della Storia la sua oscena rappresentazione, che fa del Potere trionfo d'anarchia, che fa della Legge capriccio sadiano.
Come nel maestro francese, Caligola incarna l'irruzione violenta dell'assurdo nella vita.
Torna certo in mente l'apice dell'opera di Camus, il monologo rivelatore dell'Imperatore folle: "La solitudine, sì, la solitudine! La conosci tu la solitudine? Sì, quella dei poeti e degli impotenti. La solitudine? Quale solitudine? Ma non lo sai che non si è mai soli? E che dovunque ci portiamo addosso tutto il peso del nostro passato e anche quello del nostro futuro? Tutti quelli che abbiamo ucciso sono sempre con noi. E fossero solo loro, poco male. Ma ci sono anche quelli che abbiamo amato, quelli che non abbiamo amato e ci hanno amato, il rimpianto, il desiderio, il disincanto e la dolcezza, le puttane e tutta la banda degli dei!"
Stilisticamente, benché il testo sia precedente ad altre pubblicazioni dell'autore, in Caligola - Poeta del sangue il possesso narrativo appare più maturo. La cascata delirante di variazioni poetiche (a volte ridondanti, a volte riuscite, a volte magnifiche), marchio precipuo dello stile di Foschini, è qui ritmata da una punteggiatura, oseremmo dire, quasi normale.
Invece del consueto effetto da fiume di lava che tutto travolge, in questo caso le riflessioni appaiono come innumerevoli intuizioni ermetiche in serie, come se lo stile, aulico e nervoso insieme, seguisse il crescendo dei pensieri, in una serie di nerissime illuminazioni poetiche.
La nostalgia dell'Uno (da Foschini negato e ingiuriato ma dalle sue creature poetiche, almeno inconsciamente, anelato) è tema cruciale che dalla Gnosi tracima nel miglior esistenzialismo, religione d'orfani filosofici, e qui l'autore coglie accenti leopardiani: "Non si può colmare il baratro tra ciò che desidero e ciò che mi sfugge. Non posso attingere all'assoluto. Non posso danzare libero dal peso della mia divinità. Non posso essere né uomo né dio. Posso solo spalancare la bocca davanti allo specchio e vedere emergere il caos".
                            




Più singolare, ma diverso ed eguale (come amerebbe dire Guccini), il discorso su Edoardo II - Lo spirito e la forza, cronologicamente successivo ma stilisticamente più selvaggio, inospitale, follemente barocco  nel continuo inebriarsi di acrobazie retoriche.

Come è intuibile, il testo è I'ispirato all'Edoardo IIdel colosso Cristopher Marlowe, quasi una vulcanica variazione poetica dei versi più celebri di esso. Foschini trova invero un terreno fecondo per le sue maratone sintattiche nelle sentenze memorabili e cruente del gigantesco autore elisabettiano, l'Ombra oscura e inquietante di Shakespeare. Del resto, trattiamo d'un autore, come la leggenda nera ripete, che morì bestemmiando, ucciso alle spalle in quanto spia, e i cui primi documenti sulla sua vita attestano che la sorella (nemmeno lui!) era una nota bestemmiatrice.
Se, appunto, dai versi scolpiti nel Male di Marlowe, Foschini trae preziosissimo humus per le sue ramificazioni poetiche, è interessante confrontare la sua peculiare visione con le recenti trasposizioni popolari dell'inquieto monarca medievale.
Due punti di vista opposti e speculari.
Ritratto come un principe vile e effeminato, incapace di gestire qualsivoglia azione o di gioire della splendida Sophie Marceau in guisa di Isabella di Francia, nell'epica per destrorsi di Braveheart (quando Gibson sfogava le sue turbe glorificando gli uomini e non umiliando Dio), egli invece appare fiera e dolente icona gay nelle visioni, potenti anche se talvolta kitsch, dell'Edoardo II di Derek Jarman.


                              
Molto più profonda e universale (nel paradosso d'essere personalissimo delirio) è la visione di Andrea Foschini. Edoardo diviene perfetta incarnazione dell'idiosincrasia antistoricistica dell'autore:
 "Regnare fu porre fine alla Storia".
La narrazione ricalca fedelmente le vicende storiche già trasfigurate da Marlowe, declinate nella pregiatissima ridondanza della prosa di Foschini.

                                
Come e prima di Caracalla, Edoardo è l'inetto, il tocco, il diverso destinato a irrompere sulla scena storica, lui orgogliosamente al di fuori di essa, a detenere il Potere, annichilendo così nella sua puerile dissolutezza Potere e Storia.
Torna, non dissimilmente dal suo Caligola, la costante metafora della corona come come peso insanguinato che grava sul capo, come una tortura, una prigione sadica per un bambino irrequieto.
L'irriducibile irresolutezza dell'individuo come polvere che inceppa l'ingranaggio cieco e mastodontico della Macchina Storica:
un tema quasi kierkegaardiano, ma senza redenzione se non nella distruzione gloriosa, nelle fiamme alte e purissime del massacro.
                                                 
Andrea Foschini

Concludendo, Andrea Foschini, pur nella fieramente proclamata osticità dei suoi coltissimi poemi in prosa, pur nella inquietante china delle sue riflessioni antiumanistiche, si conferma uno scrittore dotatissimo, quasi visitato dai migliori spiriti decadenti, che trae, spesso, oro poetico dal fango limaccioso della Storia degli uomini.








GOLEM di LRNZ - Bellezza e Conoscenza

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Oggi è finalmente uscito Golem di LRNZ in libreria.
Un momento che aspettavo da vent'anni.

Sono mesi che parlo, scrivo, annuncio e commento riguardo l'attesissima uscita odierna.
Soprattutto, quello che ho da dire criticamente, l'ho già scritto nella postfazione del libro che ho avuto l'onore di stilare.
Non credo sia dunque necessario dilungarmi molto oltre qui, se non per alcuni brevi chiarimenti.
Per chi volesse approfondire QUI c'è la conversazione oceano, più che fiume, con LRNZ su FUMETTOLOGICA, in cui svisceriamo fino alla consunzione i diversi aspetti interpretativi dell'opera.

Mi limiterò ad alcune brevi riflessioni.
Golem, per un'anomalia tecnica nelle tempistiche di pubblicazione, è stato indicato da diversi e autorevoli siti tra i migliori libri del 2014, pur potendo arrivare tra le mani del grande pubblico solo oggi.
La pubblicazione ufficiale è avvenuta, infatti, a metà dicembre, anche se in realtà solo le redazioni giornalistiche, i presenti alle presentazione di Milano e Torino o i più tempestivi tra coloro che lo hanno ordinato tramite il sito di Bao o Amazon hanno avuto occasione di leggere il libro prima di oggi.
Ciò nonostante, molte tra le redazioni che hanno potuto valutare il libro non hanno esitato a inserirlo fra i libri imperdibili dell'anno appena scorso.
I primi siamo stati noi di FUMETTOLOGICA QUI,  sono poi seguiti WIREDQUI e altri blog e riviste specializzate, tra le quali segnaliamo BadcomicsQUI.
Il libro ha attirato l'attenzione dell'Huffington Post QUI e della Repubblica nell'articolo, molto centrato, di Luca Valtorta qui riprodotto (per chi ha letto il libro l'accostamento del titolo del libro a quello del più importante quotidiano italiano ha il gusto di un sottile inside joke):


Quindi, per quanto si possano assolutamente comprendere le iniziali perplessità, crediamo di poter asserire che ci troviamo davanti a un'opera che si impone prepotentemente alla nostra attenzione.

Perché è presto detto.

Molti critici si sono soffermati sulla innegabile bellezza pittorica di alcune tavole, sulla notevole abilità tecnica di LRNZ nello svariare con eleganza tra codici stilistici completamente differenti, sulla novità assoluta, o quasi, dell'approccio narrativo.


Altri, pur plaudendo al grande impatto estetico del libro, hanno sottolineato alcuni difetti nella sceneggiatura, quali lo scarso approfondimento dei personaggi minori.
Persino Federica Lippi nella sua pur entusiastica recensione su FUMETTOLOGICA QUI muove simili rilievi.

In generale, a livello di critica, si celebra l'avvento compiuto di un talento grafico straordinario, enfatizzando questo aspetto dell'opera a dispetto del valore della storia, sminuito o, a volte, non colto fino in fondo.



Avendo seguito fin dalla genesi la ventennale, rocambolesca genesi dell'opera, mi permetto di dissentire. Posto che è assai limitante, scindere forma e contenuto (retaggio di impostazioni critiche ottocentesche), per ciò che mi riguarda, la bellezza delle immagini in Golem, di per sé evidente, è un aspetto quasi secondario, o meglio talmente lampante da risultare fruibile anche alla più superficiale delle letture.



Come abbiamo sottolineato più volte, e come LRNZ ormai ripete a mo' di mantra nelle interviste, Golemè un'opera allegorica.
Aggiungo io, di una complessità senza precedenti, almeno nella recente produzione fumettistica italiana.
Dietro ogni singola tavola c'è un'intelaiatura di simboli, una stratificazione di richiami culturali, un accesso costante e consapevole ad archetipi universali, che, per fare un esempio, si può trovare in una serie televisiva di 6 stagioni come Lost.
Solo che qui è condensata in 240 pagine, come il precipitato densissimo di vent'anni di meditazione artistica.


Si scongiuri una volta per tutte ciò che io chiamo "l'equivoco giapponese"!
Si spazzi via, vi prego, la superficiale lettura: "Ah, sembra un manga!"
Abbiamo speso ore di conversazione in due interviste lunghissime (QUI su Conversazioni sul Fumetto e QUI in già quella citata su FUMETTOLOGICA) per far spiegare a LRNZ quanto segue "...il punto è che per me il manga non è questione di contenuti, ma di tecnica. In realtà, se uno andasse ad analizzare graficamente Golem in maniera approfondita scoprirebbe che non ha neanche la sfacciataggine, stilisticamente necessaria, di Astrogamma. Se cerchi le linee cinetiche, delle soggettive dinamica (tratto distintivo del manga) le trovi tre volte, l’uso massiccio delle onomatopee non è presente. Se mi dovevo chiedere come risolvere un problema grafico la domanda era: “come lo avrebbe disegnato Winsor McCay?”. Mi spiego? Ciò che mi interessava era riportare la linea chiara dentro di me, lì da dove era venuta, il più possibile incontaminata. Per dire: il primo disegnatore immenso in linea chiara è comunque McCay appunto. Nato nel 1869, non so riesco a spiegarmi. A me interessa l’universalità di quel segno. Un’universalità che fonde, in maniera molto efficiente, l’archetipo e il segno occidentale. Che può capire chiunque. Nel caso del manga. ciò che mi affascina è il rapporto col disegno completamente, drasticamente, diametralmente opposto a quello occidentale".
E ancor prima: "Se io penso ai miei referenti principali, sicuramente non sono giapponesi. Il Giappone è entrato nella mia vita con l’animazione, il fumetto, i videogiochi, ma se andiamo a vedere a fondo i miei capisaldi sono più occidentali che giapponesi, russi compresi".


Golemè un'opera che sposta l'asticella più in alto per chiunque voglia fare fumetti in Italia.
Golemè la dimostrazione che si possa fare cultura e arte col fumetto pur proponendo un'opera dal grande fascino popolare.
Golem spariglia fittizie contrapposizioni di campo, abbatte pregiudizi decennali, deride tabù artistici, mescola e gioca con categorie e generi ritenuti inconciliabili finora.
Golem  è opera allegorica, riflessione sociale, fumetto d'azione e commovente storia d'amore.
Golem è un inno all'innocenza e al potere della bellezza di incarnare la verità.
Golem può mettere d'accordo i lettori del manga e i i cultori di Andrea Pazienza, concilia Urasawa e Moebius, Otomo e Tarkovskij, Hokusai e Caravaggio, unisce gli appassionati di videogiochi e gli studiosi di cultura greca, può esaltare la mente dei lettori più colti e lasciare a bocca aperta chi cerca solo una storia d'intrattenimento.
Per un semplice motivo: perché accede a degli archetipi, che sono universali e perennemente originali, e straccia ogni stereotipo, che è la morta ripetizione del "già visto".
Al di là dei gusti e delle pur lecite opinioni, si tratta di un libro che resterà nella storia del fumetto italiano come una traccia rivoluzionaria.

Non rimane che augurarvi buona lettura.

P.S.
Se qualcuno pensa che la mia amicizia ventennale con LRNZ possa influenzarmi nella valutazione critica del libro, impedendomi d'essere oggettivo, ha indubbiamente ragione: ho tenuto talmente tanto a questo progetto che per vent'anni ne sono stato il più severo critico e censore.

TUTTI GLI ARTICOLI DI GENNAIO

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Cari Lettori,
chi scrive sta vivendo settimane di singolare vertigine rocambolesca, diviso e moltiplicato tra impegni sempre più entusiasmanti e peripezie simili a quelle di Hugo prima dell'incidente aereo nella serie Lost.
Questo porta un rallentamento nel ritmo delle pubblicazioni, ma non nell'entusiasmo e nella mole di riflessioni in cantiere.
Ecco il tardivo ripasso della messe di Gennaio.


Su queste deliranti colonne vi abbiamo inflitto:

- L'omologo riassunto di Dicembre (in cui parlammo di molte cose, da Nick Cave a Zerocalcare)  QUI;



- La recensione doppia di Caligola ed Edoardo II di Andrea Foschini (QUI);



-  L'articolo in occasione dell'uscita di Golem di LRNZ (QUI).
A riguardo, ribadisco ciò che ho scritto nella postfazione, nella ormai nota intervista-fiume su Fumettologica, e ripetuto più volte nelle presentazioni romane alla Borri Books di Termini e al Kino al Pigneto: il libro non è esente da difetti, è palese una compressione narrativa dovuta alla riduzione a volume unico di una storia che nasce per essere sviluppata serialmente. Questo lascia un po' di amaro in bocca al lettore, per il mancato approfondimento di personaggi che, per tornare a menzionare una nota serie già citata in queste righe, avrebbero meritato approfondimenti monografici simili alle puntate dei flash-back di Lost. Ciò nondimeno (al di là della bellezza pittorica di alcune tavole che ha conquistato numerosi lettori), ritengo che per progettazione, spessore allegorico, varietà di stili e complessità simbolica il libro non abbia riscontri nel fumetto italiano, almeno recente. E che rimarrà negli anni come un punto di svolta;



Su FUMETTOLOGICA invece l'anno è iniziato in grande stile:

- L'analisi dei riferimenti culturali occidentali nell'ultimo lungometraggio del maestro Miyazaki, Si alza il vento (QUI), a cui teniamo invero molto;



- L'intervista a Fabio Guaglione riguardo a Il Nuovo Mondo (QUI), una mente poliedrica degna d'essere seguita con attenzione;



- La recensione diMercurio Loi di Bilotta/Mosca (QUI), riuscito esperimento di fumetto popolare;



- In occasione della Giornata della Memoria, l'intervista a Michel Kichka, autore de La Seconda Generazione per Rizzoli Lizard (QUI);



Inoltre, abbiamo esordito su XL-La Repubblica con un'intervista che difficilmente scorderemo;

- Linsday Kemp, il maestro di David Bowie e Peter Gabriel, tra gli altri, che ci ha deliziato con aneddoti meravigliosi (QUI)


Molti articoli sono già in cantiere per il mese corrente.
Continueremo a intrattenervi, nonostante qualsiasi ostacolo, non come ma più di prima.
Buona Lettura!


S.La Nave di Teseo - un affascinante feticcio della metanarrativa

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S.La Nave di Teseoè un'intuizione geniale, realizzata in grande stile.
Il progetto (ideato dallo sfrontato illusionista J.J. Abrams e  impeccabilmente messo su carta da Doug Dorst) è irresistibilmente seducente: all'interno di un elegante cofanetto, il lettore trova quello che ha tutto l'aspetto di un libro preso in prestito in una biblioteca, pieno di sottolineature, timbri, diversi strati di appunti, cartoline, articoli ritagliati e ricerche parallele.
Il libro (fittizio) è del misterioso autore W.K. Straka, contemporaneo e rivale di Hemingway, autore di una serie di best-seller (negli anni della Lost Generation fino a dopo la seconda guerra mondiale), tutti uniti dalla singolare caratteristica di non presentare nessun apparato critico, né introduzione né note esplicative, a corredarne il nudo testo.
Tutti tranne l'ultimo, quello che appunto ci ritroviamo fra le mani, che è aperto da un'inquietante e ambigua introduzione da parte del traduttore F.X.Caldeira, sul quale non si hanno notizie, il quale, non contento, ha disseminato il libro di note al testo apparentemente inutili e insensate.
Nell'introduzione si accenna al fatto che il libro è rimasto incompiuto, proprio nelle ultimissime pagine, a causa della improvvisa, oscura scomparsa dell'autore.
Come ha più volte ripetuto la curatrice Francesca Martucci durante l'incontro alla Casa delle Traduzioni di Roma (QUIun resoconto), già il libro in sé (La nave di Teseo di Straka) è una lettura che vale il prezzo dell'edizione. E ha ragione, poiché la mimesi dello stile febbrile e visionario dei grandi autori inglesi e americani (da Conrad a Melville al citato Hemingway) è invero magistrale.


Ma rimaniamo nella finzione, siamo solo al primo livello di lettura di questo complesso incastro letterario.
Oltre a quella narrata del libro, presto si intuisce che la vera storia, la narrazione ulteriore e risolutiva, è quella che si può delineare studiando a fondo le note e soprattutto gli appunti presi, in varie fasi, da due accaniti lettori, Jen ed Eric (la bilbiotecaria e lo studente innamorato del libro).
Guidati dalla passione per la lettura e il gusto dell'avventura tipicamente adolescenziali, i due arriveranno a scoprire la chiave per decifrare i misteri nascosti nel codice del testo riguardo l'identità dell'autore e il vero significato del libro.


A noi lettori non rimane che immergerci in questo mastodontico ed avvincente rompicapo per ricostruire e interpretare il percorso di scoperta dei due lettori/protagonisti.
Se ci può consolare, allo stesso gioco interpretativo sono state sottoposte le curatrici per realizzare la versione italiane del libro!
Ma non ci troviamo soltanto davanti a un affascinante labirinto narrativo.
L'oggetto in sé è un gioiello cartotecnico destinato a scatenare lo sfrenato feticismo dei bibliomani.
Senza dubbio, è un'operazione romantica quanto furba (consueto connubio nel perfetto tempismo del producer Abrams) tributare un tale monumentale atto d'amore al libro in quanto oggetto cartaceo nell'era dei Kindle e degli e-book, in cui quotidianamente si annuncia che la stampa è destinata a scomparire.

Sia lode, quindi, alla traduttrice Enrica Budetta e alle curatrici Francesca Martucci ed Elisabetta Sedda (Rizzoli Lizard) che hanno svolto un lavoro immenso per farci godere in italiano di questo prodigio cartotecnico e metanarrativo.
Pensate solo a cosa può significare tradurre in italiano un testo fondato su giochi di parole e codici enigmistici in inglese.
Pensate a quanto, a traduzione effettuata, si sia dovuto lavorare sul testo per renderlo compatibile con le esigenze del gioco narrativo (ad ogni capitolo corrisponde un oggetto rivelatore e un codice da decifrare, come per intenderci se fossero i quadri di un videogioco).
Sia giusto plauso  anche allo Studio Nora di Vincenzo Filosa e Giusy Noce per il prezioso lavoro di lettering, in grado di restituire (pur disponendo di una strumentazione tecnica inferiore rispetto ai colleghi americani) lo stesso effetto realistico degli appunti presi dai lettori protagonisti che possiamo apprezzare nell'edizione originale.
Senza il grande sforzo creativo di tutti loro, compiuto in tempi relativamente brevi, non staremmo oggi vivendo, insonni e deliziati, ore e ore di appassionante lettura notturna,


Indubbiamente, il libro è intrigante quanto impegnativo.
Ma per chi si sta rivedendo, con scrupolo da talmudista, per la quarta volta la serie Lost,  annotandone  gli evidenti difetti, ma anche riscoprendone il miracolo di gestione narrativa delle stagioni centrali (che si infrange un po' goffamente nell'ultima), la sfida non appare certo sorprendente.
Il libro sembra progettato scientemente per destare il daimon della lettura e della filologia nei lettori occasionali: per chi ci convive dalla nascita  è come avere ingressi illimitati a un parco giochi intellettuale.
Certo, il rischio è quello presente in ogni creazione di J.J.Abrams: ovvero che il gusto della moltiplicazione metanarrativa diventi eccessivo fino alla nausea, che il filo complicatissimo dei rimandi esterni e dei collegamenti interni si ingarbugli fino a strozzare la genialità dell'idea originale, costringendo a riempire vistose falle narrative col ricorso disperato a stereotipi di comodo.
Siamo ancora visitati nei nostri peggiori incubi da Dogen, l'impresentabile guardiano del Tempio di Jacob nella sesta serie di Lost, una costellazione di banalità da record concentrata in un solo personaggio dalle poche, intollerabili battute. Un personaggio che in quel momento della storia (talmente atteso dal pubblico che Barack Obama spostò il proprio discorso per evitare che gli americani guardassero lo show)  teoricamente avrebbe dovuto  rappresentare il custode dei Misteri dell'Isola.
Una coltellata vibrata a tradimento al cuore, dopo gli indimenticabili incontri con John Locke e Benjamin Linus nelle serie precedenti.

Per ora il libro è esaltante (siamo al secondo capitolo).
Lo stiamo divorando con la foga d' un bulimico, reduce da un digiuno forzato di un mese, di fronte a un banchetto nuziale,
Ne parleremo sicuramente molto presto, con la mania filologica che siamo ormai d'uso infliggervi.
Ora lasciateci gioire, smarriti nel gioco ipertestuale, come un bimbo rapito dal balocco dei suoi sogni.

LINSDAY KEMP: The graceful charisma of a Maestro

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Questa intervista è la traduzione in inglese dell'intervista apparsa in italiano su XL -La Repubblica il 22 Gennaio 2015 col titolo Linsday Kemp: il carisma e la grazia di un maestro (la trovate QUI).

Domani uscirà sul domenicale, l'inserto culturale di Repubblica, il racconto del nostro incontro, proprio per la rubrica INCONTRI.



Linsday Kemp is an extraordinary artist who has lived through nearly 50 years of underground culture, with the charisma and the grace of a natural master.
KIemp is considered one of the gurus of contemporary dance theater and in his long career his art has attracted true legends of art such as Nureyev and Fellini, Mick Jagger and Ken Russell. Above all, he had a decisive influence on the history of rock. Suffice to say that among his pupils we can include Kate Bush, Peter Gabriel, and especially David Bowie, who more than anyone has admittedl his influence.
Kemp finally is back on stage around Italy.
With his show Kemp Dances he will perform on the 13thof March in Romeat the Teatro Brancaccio and on the 25th of March in Genovaat the Teatro Politeama.
This article is indeed is a crime against humanity. No written transposition, in fact, can express the delight of conversing with the greatest living mimic artist .
Every joke, every memory, every nuance or allusion of Kemp is indeed amplified and made memorable by the enchantment of his elusive iridescent facial expressions, the playful dance of his voice, now mocking, now moved, now deep, now touching.
We met him at his residence in Livorno, the day after Marianne Faithfull's concert in Lucca. This coincidence was an opportunity to rewind the thread of memories that evoke a wonderfully rich career .

How did you meet Marianne Faithfull?
"I met her years ago, and I can certainly call myself one of her admirers. She's very talented; she is a singer, an actress, a performer at 360 degrees. I met her many years ago, in the late '60s, I think thanks to Mick Jagger. I do not remember ... maybe Marianne knew him from before. Yes ... I met Mick Jaggerthrough Bianca. She followed the tip tap lessons of a colleague of mine and during an exercise she broke her ankle. We went, therefore, to visit her in the hospital, and I found myself sitting on the other side of the bed of Mick Jagger. It was love at first sight! Jagger was already an international rock star at the time. "

Can you tell us something of your friendship?
"Yes, of course, he was already a big rock idol. I remember he came to see me during the first version of Flowers in London, in 1974. He became a great admirer of mine, and when we moved to Broadway he sent me a bouquet of 101 white lilies. At least, I think they were 101, every time I tell this story I increase the number (laughs)! A few days later I was interviewed by a major magazine, and I got them to photograph me while I embraced that bouquet... I held the flowers until they were completely dead! "

One of the keys to your new show, Kemp Dances, is the constant reinvention of yourself. Can you talk a bit about the show?
"We presented the preview last summer, then in Parma a few weeks ago, and then we will return to Rome, at the Brancaccio, on tthe 13thof March. I will be accompanied by David Haughton, Daniela Maccari, Ivan Ristallo and James Vanzo. In the first part of the show we will present a new adaptation of the History of Free Soldierby Stravinsky. The second part consists of some of my classics alongside some new stories. After Rome we have a show in Genoa on the 25thof March, and then we will go to Spain. Finally, I'll be on the road again! I used to be constantly on tour but it's a long time since doing one, I miss the road. Before I complained that there was too much to do ... now there's too little! "

As a line from Bob Dylan says,: "Yesterday everything was going too fast. Today, it's moving too slow "... not surprisingly he's been constantly on tour since years...
"Exactly!"

Contemplating your great career, one would think that Kemp Dances is a sort of anthology of your work, is that correct?
"Honestly, I didn't imagine it that way. Yes, in some parts we will perform pieces I already proposed several times, but every time I go on stage it is always a reinvention. That's why the subtitle of this show is Inventions and reincarnations, because they are works that I love to run, but each time I play them in a different way."

Nijinskij

You mentioned Stravinsky but we can not avoid to mention Nijinskij, the legendary dancer who you've played many times on stage.
"Nijinskyis one of my classical interpretations, that Kemp Dancesbrought back to life. He was an incredible character, worshiped as the greatest dancer in the world, a living legend who was mad, invaded by a visionary and even paranoid mysticism. He wrote a diary when he was already in a mental hospital in the Swiss mountains, that is impressive ... suspended between ecstasy and tragedy ... then he locked himself in silence for more than 30 years. "

Really, it is a pity that practically we do not have any videos of his performances. How could you interpretate a legend of the dance with very little documentation, if not his famous diaries?
"I played the music on which Nijinskij danced. And, somehow, I was able to summon his spirit. Before going on stage, I merge myself in a sort of trance. For me it is very important. "No trance, no dance!". So, it is as if we enter in another world. In the case of Nijinskij, the world of the Des Ballets Russes company and the art of the avant-garde. I studied very deeply Nijinskyand I met him through his own words, photos, biographies, through the stories of those who saw him dance. I always felt that Nijinsky was present in spirit when I played him, I feel the same about Garcia Lorca or Isadora Duncan when I impersonate them. But at the same time, I am not imitating them. I am myself in the role of Elizabeth I, Lewis Carrol, Puck or during Salome's dance of the seven veils. In my interpretation there is just me as there are all the great personalities that I embody on the scene. "

When you talk about trance, would you define it a as some kind of meditation?
"Well, I would say that it is my type of personal meditation. I have had experience of meditation but I never followed a particular fixed teaching. But I've been there, like so many, in those years, Mick Jagger, Bowie, everyone was interested, the Beatles went to India etc. I studied in particular Tai Chi. All my classes start with a moment of peace and quiet, some form of meditation. And then the music. And then you surrender to the music, like a tree surrenders to the breeze, allowing the music to transport you to another world. And so suddenly ... we are in Japan! Or Spain. I always hope that this trance is what Garcia Lorcacalled the Duende, the other side of the moon that is within ourselves. I do not recite, I actually live the experience. Like the children when they play, for them that is the reality. Do not act, be yourself. If you can follow this principle, you are never repetitive. You're real. "

With this approach you made shows like Onnagata and Mr.Punch, which are intimately linked to the concept of "mask".
"Those characters were similar to those of the "Commedia dell'arte". Their faces were not actually "their" faces. Mr.Punch, well I played him with the mask of my face. But, in fact, instead of a mask I used makeup! I painted my face with my imagination and what I saw in the mirror. When I put makeup on my face, I paint what I imagine. I think it's a little how to bring outside the inner and bring inside what is external. Making visible what is invisible. "

What attracted you in Mr.Punch's character? It almost seems that you want to reinvent the tradition.
"The characters I play are the characters that I could be, or want to be. And with which I identify. I'm not an actor, see: the actors identify themselves with what they are not, but I identify myself with what i am. These are all aspects of myself, loving and aggressive, wise and foolish, all aspects of our personality which is composed, as pieces of a jigsaw puzzle. I've always been attracted to Punch because he is a lot like me! Punch is the other side of Divine, the character of Jean Genet that I played in Flowers. Punch is the aggressor but also he is the rebel. This makes me identify with him. Punch tends to destroy everything that he does not like, especially the authorities, he always fights the law, committing horrible crimes ... to the delight of the audience (laughs)! But the lies of Punch is a game, a game carried too far. I was always excited about his passion, his exuberance, his anarchy, the absolute freedom of his personality. And, of course, his costume; orange and yellow, his disturbing makeup, his grotesque teeth, the whole thing expressing excess, and all the wonderful elements, typical of the characters of the "Commedia dell'arte"


Artists which are worldwide adored, like David Bowie, Peter Gabriel and Kate Bush, were your students. How do you feel about having fed the inspiration of people who have become, in some cases, living legends?
"Every time the BBC calls me and says," We wanted to contact you for a documentary" and I say "Finally! " ... But in the end I always discover that it is about Bowie or Kate Bush (laughs)! The current BBC do not want to deal with me, I am too outrageous, the cultural establishment in Britain today is very boring, always suspicious, conservative. I have always been considered, and I will always be considered a foreigner at home. Now that I live in Italy, I am happy because I am no longer a stranger. "


In your career you have been a magnet for nonconformist artists, such as Ken Russell and Derek Jarman. You've worked with them in Savage Messiah of 1972, the year after the scandalous film The Devils. What are your memories of that experience?
"You know so many things, I'm glad! Yes, Derek Jarman was the art director, I met him for the first time on that occasion, later we became good friends. Working with Ken Russell was not easy, because he acted a bit like a diva, he could be very kind and then suddenly very hard. I was a little "boy", the"new one" on the set so he didn't treat me gently, indeed, with great impatience. Actually he liked me, he invited me to his house after the movie, to drink champagne ... but there was nothing! He had spent all his money, he had mortgaged his house to make Savage Messiah. I think it was a good movie. Obviously, there was Dorothy Tutin, an extraordinary actress, who was marvelous. Russell called me for his film in 1977, but in the final cut my scenes were gone! He recited very seriously the part of the director, with coat and scarf, very serious ... but he was also able to look around, he knew he was playing a part. I invited him to play Herod in my Salomè, but he declined at the last minute. Later I had great actors in that part, especially the great Anton Dolin. We became friends and the Russian Ballet Company got in touch with me. "
Nureyev in Valentino
Speaking of Russian ballet, I have to ask you about Rudolf Nureyev who was the protagonist of the film Valentino. You were friends, is that true?
"Absolutely. He came to see Flowers when I was in London. We became friends and mutual admirers. Many times he came to my shows. We had many projects together, I was going to go to the Paris Opéra to dance with him in a gala! We were about to stage The Spectre de la Rosetogether, I would have played Rose, the young girl. We had a lot of projects that unfortunately we could not realize because of his tragic disease. "


Kate Bush dedicated a song to you. Do you remember how you met each other?
"I was talking the other day with Guido Harari, the great photographer, about the last time I worked with Kate for his short film The Line, The Cross and The Curve. Kate came to see me at every show, anywhere I was playing . She found me at the Dance Center in Covent Garden, where I was teaching dance. I used to teach to anyone who wished to learn, my students were actors, singers, dancers, painters, musicians, and very normal people. When Kate was there, there were often students like Peter Gabriel and Miguel Bosé. "


As everyone knows, your greatest influence was on David Bowie. Can you share with us some of your memories?
"Bowie came to see my show in a small theater. Someone had given me his LP, the day before, the one calledDavid Bowie, by the label Dram. I remember the song: When I live my dream. And I fell in love immediately with his music, his voice. I played the disc before the show and then I made my entrance into the scene. He was present and he was very flattered. He came to see me in the dressing room, and it was really love at first sight! The next day he came to see me in my apartment in Soho and we began immediately to plan everything that we could do together. He fell in love with my world, he was enchanted especially by my version of Pierrot. He began to come to my classes at the dance center the very next day, and we prepared together the show Pierrot in Turquoise... the story with Bowie is long and dramatic, usually I do not want to talk about it ... but I can reinvent it every time I want! "


You have designed and staged the show of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. How do you feel when you think that your work has been so powerfully influential on rock history?
"I am pleased and flattered that my influence is so widespread. For me it is very important, it makes me feel a useful person. In my dance lessons there were rock stars and Hollywood actors. There was not only Bowie and Peter Gabriel, there was also Mia Farrow and Sandy Powell, the famous costume designer, who studied, with passion, my teachings. They came to my lessons after they saw my shows, because they wanted to become part of my world. Sandy first worked in fashion and then decided to work for the theater. The first work she did was to be my first assistant on Nijinsky show. Years later, she won three Oscars! But even after that, we have continued to work together, she has designed costumes for Elizabeth, for example. Many people came to my classes and they were influenced. You know, I never wanted to take too much credit, I never wanted to emphasize my influence, but now that you tell me so I'm thinking ... Fuck (laughs)! Bowie, for example, as a dancer he does not move very well to begin with, which we can not say about Mick Jagger or, for example, Michael Jackson. He had, of course, a natural grace, but it was, let's say, a Mr. Bojangles! Sure, he was fabulously charismatic and he had a versatile talent. We went to see many shows together. I remember especially a Jacques Brel's concert, whom we both loved. As you know, in the Ziggy Stardust show David made his version of Brel 's My Death. That interpretation was beautiful, simple, essential. I've always encouraged him to be simple and direct. The histrionism was not so much suggested by me, even though at that time I was at the peak of my Baroque period. Now my shows are much simpler, as you will see in Kemp Dances. Well, simple... they're not "so" simple! They are designed and lit in a more essential way. "


In some parts of the Ziggy Stardust show your influence is clearly recognizable, such as in the facial expressions of the performance of The Width of the Circle, but also in the use of kimonos.
"I shared with him my passion for Japanese culture in particular, especially for the Kabuki and No theatre. Bowie asked me to direct and, above all, how do you say ... assemble the show. What I have done was giving a shape to the whole thing, building the show. He made me listen to the songs and with those songs I built a show. We worked a lot together, we fell in love, then we broke up ... Oh, you may have read somewhere that I cut my veins ... well, let's say, that was a slight exaggeration! However, just before Ziggy Stardust, I and his wife, Angie, we were already friends. She came to the theater where I was playing Flowers, and she asked me on behalf of Bowie to direct the Ziggy show. And I took the tape with the songs that Bowie wanted to use, including I'm Waiting for My Man by Lou Reed, the covers of Jacques Brel, Lady Stardust, a really lovely song... "

They say he wrote it for Marc Bolan ...
"Yes, he wanted to project images of Marc Bolan during the performance ... but I was not so sure of the choice ... I wanted Lady Stardust to be me (laughs)! I could interpret it on stage, wearing my Flowers costume, with pearls and a silver dress! But he kept saying, "No, I want Marc, Marc!", And then we put together this video projection for the exhibition. At that time he met Kenneth Angerand Mick Rock, the author of Life on Mars?video, and he was developing a passion for this new discovery of music videos. He was always deeply interested in exploring new technological possibilities. "


Due to your great influence on the glam rock scene, you were invited to participate in the Velvet Goldmine movie. Do you think the film has managed to restore the atmosphere of those extraordinary years?
"Oh, I'd like to say yes, because I really like Todd Haynes, but I did not recognize the spirit of those years. And I was also quite confused by the story, it was all mixed up. "

Yes, in the movie the figures Iggy Pop, Mick Ronson and Lou Reed have merged into the character of Curt Wild, played by Ewan McGregor.
"Exactly."

Jonathan Rhys Meyers in Velvet Goldmine

Did you know Iggy Pop well?
"Oh yeah, I loved him. I remember, he was always around during the rehearsals of Ziggy Stardust. He was always very focused on what I was making with Bowie. Lou Reed was also always around the show, but I never got to know him very deeply. I loved Iggy and I'm really his fan. Iggy was really smart, a kind of genius. "

Marcel Marceu

Can you tell us your encounter with the legendary mime artist, Marcel Marceau, at the beginning of your career?
"It was just like when Bowie met me. When I saw for the first timeMarcel Marceau I was completely hooked. His white face, the elegant costume, everything looked just like the embodiment of the French concept of "class". He had a real skill and a wonderful charisma. It was nice but also credible. He believed in everything he did on stage. When he mimed to meet a lion and screamed with fright ... he lived that fear! As Anna Pavlova andNijinskij used to do. I saw him and he changed my life. I painted my face white and I made my version of his mimic numbers, like the one about butterflies or the one with the lion. So, I put on stage a little show called Clown's Hour. I introduced it to the Edinburgh Fringe Festival. I was 21. Just before going on stage, I threw a look to the public and I saw him, Marceu! And I thought, "Oh, shit! Now what do I do?". My show was almost completely stolen from his, and now I was going to play it in front of the original! So, I had to completely reinvent the show! The entire show from start to finish, it was improvised. He came to see me after the show and I was shitting in my pants, but he was very kind to me and said, "I'm starting to form a new company and I would like you to join us." We met in London a few days later and we started doing lessons together every day. I owe him my hands, he completely changed the way I move my hands on the scene. We became friends. "


I knew that Fellini wanted you in his film, it is that true?
"Felliniwanted me, it's true. I met him with Jack Birkett - the Incredible Orlando - in 1965, when I was in Rome for the first time. We played in the street, in the streets of Trastevere, we did not have any money, not even for a crust of bread. We risked being arrested many times, the atmosphere was very conservative at the time. Fellini really wanted me to work with him. I met him many times when we danced in Piazza Navona, I played the tambourine, and he loved to walk at night in that square. He came later with Giulietta Masina to see my shows. Fellini wanted me in his Casanova, it was a nice role. I waited for the film to start, almost one year. Then I went to Australia, and then Fellini wrote to me, but I was busy with the Australian tour and could not accept the invitation of Federico. "

Federico Fellini
What is your opinion of contemporary dance?
"I see many dancers nowadays, which are also good, but they do not make me shake my wrists when I watch them dance. They all define themselves as contemporary dancers, but dancing is always "contemporary to its time." My work has classic bases but today has become avant-garde. In the dance of nowadays I miss too often the story, the emotions, the deeper communication, the relationship with the public. The true, great contemporary dancers, such as Martha Graham, are primarily great storytellers. "

How would you define art?

"Giving shape to the emotion to communicate it to the public."

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Complici molteplici impegni ed una serie di circostanze rocambolesche da far apparire Mr.Bean in guisa di MacGyver ad un rapido confronto, Febbraio ha recato una messe diradata, i cui frutti stiamo raccogliendo nel mese corrente.



- Su Fumettologica abbiamo visitato lo studio di Michele PetrucciQUI


- Su XL- La Repubblica abbiamo avuto il grande piacere di conversare col grande Paolo Poli QUI




- Sul blog oltre al consueto recap del mese precedente (in cui ricordiamo l'intervista a Linsday KempQUI) che trovate QUI,  abbiamo parlato di S.La Nave di Teseo, affascinante balocco metanarrativo, ideato dal vulcano J.J. Abrams e scritto da Doug Dorst QUI


Per i nostri ritmi elevati di grafomania compulsiva, certo si tratta di ben poco.
Ma a già a Marzo ci stiamo rifacendo.
Buona Lettura!
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